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L'INTERVISTA DELLA SETTIMANA
11 Febbraio 2024 - 10:00
Moreno Grossi
La domenica sera alla Smarrita di Moreno Grossi erano di casa l’Avvocato Agnelli, il conte Camerana, la famiglia Nasi e tanti altri vip del bel mondo torinese e non solo. E tutti andavano pazzi per quel pollo alla babi della tradizione piemontese, croccante fuori e morbido all’interno. Lo ricorda bene Grossi, da quarant’anni ritenuto il Gualtiero Marchesi all’ombra della Mole. Nei suoi ristoranti sono passati tutti quelli che contano. E ancora oggi i buongustai apprezzano la sua cucina e quel dolce con le ciliegie creato apposta per il Papa.
Moreno, partiamo dal dolce. Come è nato il dessert per il Papa?
«Dunque, dovevo andare in Vaticano per preparare un pranzo per Paolo VI. Avevo già realizzato tutto il menù e mi mancava un dessert nuovo, che non fosse nei soliti cataloghi dei dolci. Sapevo di voler usare le ciliegie, ma mi mancava la scintilla. Poi, l’idea: riempirle con la pasta di mandorle, cuocerle in una salsa di Ratafià e arance e servirle sopra una crema. Così è nato un piatto che ha fatto storia».
E al Papa è piaciuto?
«Direi proprio di sì. Nel suo ringraziamento disse: “Noi, con i nostri fedeli, dobbiamo avere la stessa pazienza degli chef che ci hanno preparato questo stupendo dessert».
Be', un gran complimento.
«Certo. Aveva capito che togliere il nocciolo alle ciliegie, riempirle e assemblare il piatto richiedeva un grande lavoro di cura».
Il suo è un nome rinomato in città. Ci racconti come è diventato famoso.
«Io provengo dalla famiglia del Gatto Nero. Ho lavorato diversi anni con Gilberto, che era mio cognato. Ma dopo un po’ la staticità del locale ha iniziato a pesarmi, avevo bisogno di innovazione. Proposi alla società di seguire i flussi stagionali nel menù, ma la mia idea fu bocciata. E allora decisi di uscire».
Una scelta fortunata, considerando che da lì a poco sarebbe nata la Smarrita.
«Il successo della Smarrita è stato grandioso. Ho prelevato il ristorante dai Frediani, che era in corso Unione Sovietica, in un immobile dei fratelli Democrito».
Qual è stato il segreto di tanto successo?
«Funzionava così: l’ospite si sedeva in un salottino, dove gli veniva offerto un calice di champagne e un appetizer. Io poi prendevo l’ordinazione, la portavo in cucina e si andava a tavola solo quando era tutto pronto. Vini e acqua erano scaraffati in bottiglie di cristallo. Anche se si trattava di grandi vini, non facevo mai vedere l’etichetta. Ogni tavolo poi aveva un cameriere e un sommelier personale».
Si ricorda di qualche cliente particolarmente importante. Ci faccia dei nomi.
«La famiglia Agnelli sicuramente. Era divertente osservare come più le persone erano importanti, più volevano essere discrete. Infatti gli Agnelli venivano a mangiare la domenica sera, forse per evitare la gente. Mi trovavo a tavola l’Avvocato, il dottor Umberto, il conte Camerana, la famiglia Nasi e tutti i più grandi. Il rito era quello di arrivare, salutare gli altri commensali e sedersi ognuno al proprio tavolo. Avevano tutti un piatto in comune».
Quale?
«Il pollo alla babi».
Ci dà la ricetta?
«Lo schiacci per bene e poi lo metti in una padella di ferro rovente. Si aggiunge un peso sopra e si fa cuocere. Dopo un po’ si gira dall’altra parte e poi si serve. Rimane croccante esternamente e morbido dentro. Un capolavoro. Io giudico il pollo a pari merito rispetto alla grande carne rossa».
Ci sono altri piatti particolari di cui erano golose le celebrità?
«Diciamo che non assecondavo troppo le loro richieste. “Imponevo” quello che volevo al cliente, ma lo facevo per il suo bene. Pensi che a volte prendevo dei barilotti di caviale da tre chili ciascuno, andavo in sala e davo una bella mestolata nel piatto».
E poi dava la “mestolata” finale col conto?
(sorride) «Dipende. Le racconto un aneddoto: un giorno è arrivato al locale Luca Cordero di Montezemolo chiedendo il suo tavolo. Io l’ho invitato nel salottino per un calice e l’appetizer, come ero solito fare, ma lui voleva andare a tavola subito. Allora gli ho spiegato che la regola era quella, ma la situazione stava diventando imbarazzante, così l’ho mandato a sedersi e poi sono arrivato da lui per prendere l’ordinazione. Subito mi disse: “Io mangerei i ricchi e poveri, fagioli con gamberetti, come al Gatto Nero”.
E lei?
«Gli ho detto: “Dottore forse non ci capiamo, se vuole andare al Gatto Nero, si sposti di un chilometro e 830 metri più avanti”. Lui ha preso ed è andato via. Ma a distanza di dieci anni, una domenica sera d’estate, è tornato con la scorta. Entra, mi chiede la mano e mi dice “faccia di me quello che vuole”».
Una bella soddisfazione.
«Sì. Avevo cambiato pelle rispetto al Gatto Nero e lui ha finalmente capito».
Mi dica un suo piatto particolare.
«Io ho creato l’agnolotto di pesce. Ora è normale servirlo, ma all’epoca no».
Non lo aveva inventato Alain Ducasse?
«No. Io ho aperto la Smarrita prima che il ragazzo avesse un locale per i fatti suoi».
Oltre ai clienti, lei ha avuto nomi eccellenti anche in cucina. Cuochi oggi ben noti.
«Sì, penso a Davide Scabin, Maurilio Garola del Tornavento, Marco Sacco… Non ho mai preso chef già affermati nelle mie cucine, loro erano ancora giovani e forse lavorare con me ha portato loro fortuna».
Attori, sportivi, sovrani. Celebrità e nobilità sono passate nei suoi ristoranti. Berlusconi è mai venuto a mangiare da lei?
«Berlusconi l’ho servito alla Smarrita di via Cesare Battisti».
Solo grandi successi? Oppure c’è stato anche qualche flop nella sua carriera?
«Ho avuto una Waterloo importante. Nel momento migliore della mia vita, quando avevo raggiunto tutti i traguardi possibili, partecipo a un concorso gastronomico mondiale con 53 altre personalità e vinco. Da lì, ho preso il locale della Smarrita in via Cesare Battisti e l’ho ristrutturato. Ho speso 3 miliardi e mezzo (di vecchie lire di allora ndr)».
Per la ristorazione torinese è una enormità. Fece il passo più lungo della gamba?
«Gli imprenditori devono rischiare. L’uso del marchio La Smarrita per alberghi e negozi in tutte le principali città era valutato miliardi. Io chiusi la trattativa a Tokyo verbalmente il 16 dicembre 1990. Neanche due mesi dopo, il 4 febbraio del 1991, avrebbe dovuto esserci la firma ufficiale davanti al notaio. Invece il 15 gennaio iniziò la guerra del Golfo. Tutto salatato».
Certo è stato una Waterloo, ma almeno lei non è finito a Sant’Elena. Anzi, mi sembra che stia bene nel suo accogliente locale di corso Raffaello. Le facciamo ancora una domanda. Cosa pensa dell’alta cucina di oggi?
«Prendiamo ad esempio Crippa. Ricordo che un giorno avevo appuntamento con Ceretto ad Alba, (il proprietario dell’omonima azienda vinicola e del ristorante Piazza Duomo, di cui Crippa era chef ndr). Mi trovo in sala d’attesa e sono vicino a un uomo alto circa 1.50-60 cm. Molto figo, con una borsetta a tracolla, le gambe incrociate e si accarezza i baffi. Figo certo, ma non un grande personaggio. Ho cercato di intrattenere una conversazione banale, per passare il tempo, ma niente. A distanza di tempo ho scoperto che era Crippa, il cuoco tre stelle Michelin di Ceretto. Sarà bravo, ma è il personaggio che c’è dietro a essere influente. E già all’epoca giravano parecchi soldi intorno alle stelle. Io alla Smarrita rifiutavo le stelle Michelin».
In che senso?
«Pagavo i gastronomi perché non mi mettessero sulle guide».
E perché?
«Due ragioni: se hai la stella Michelin poi sei vittima del loro ricatto e del condizionamento costante costante. Le racconto questa: quando ho aperto in via Cesare Battisti una sera avevo una prenotazione a nome Rossi. Questo Rossi non si presentò. Non c’erano i telefonini all’epoca e non usava chiedere il numero per privacy. Quindi il tavolo restò vuoto. Il giorno dopo, verso mezzogiorno arriva questo tale Rossi e mi dice che ha prenotato un tavolo per dieci. Peccato che avesse prenotato per le 20.30 del giorno prima. Ne è nata una piccola discussione».
Come è finita?
«Mi sono messo a disposizione per farlo mangiare ugualmente a pranzo. Solo dopo ho scoperto che gli altri dieci prenotati erano critici gastronomici. Gli ho detto: “Signori, se siete venuti per una recensione, sono chiuso. Se volete solo mangiare siete miei ospiti”.
Era una trappola?
«Dopo aver letto la recensione che ne seguì ho mandato un messaggio a tutti dicendo di non farsi mai più vedere nei miei locali».
E come è finita?
«Che alla fine mi hanno fregato e mi hanno dato due stelle Michelin».
A Cracco invece una stella l’hanno tolta.
«Se lo merita. Lo conosco benissimo. Quando andavo a Bra da Giovanni Arpino (grande giornalista e scrittore ndr) mi portava sempre a mangiare in una piola dove c’erano due sorelle. In quella cucina è poi arrivato Cracco. Ma da lui ho mangiato indegnamente. Infatti ora, in Galleria del Corso, vende le pizze a 45 euro l’una».
E cosa ci può dire di Cannavacciuolo a Torino?
«Le dico che noi eravamo proprietari di ristoranti. Questi non sono proprietari. Sono gestiti da grosse aziende. E si vede».
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