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Tesori nascosti

Diamanti, corone e polemiche: ecco perché i Savoia vogliono (di nuovo) indietro il loro tesoro da 300 milioni

La battaglia legale contro lo Stato divide l’opinione pubblica. Ma quei gioielli sono davvero privati o patrimonio nazionale?

Diamanti, corone e polemiche: i Savoia vogliono (di nuovo) indietro il loro tesoro da 300 milioni

C’è chi eredita ville, chi conti in banca, e poi ci sono i Savoia: loro rivogliono un tesoro da 300 milioni di euro fatto di diamanti, perle e diademi. Un patrimonio da fiaba — o da saga familiare — che giace immobile dal 1946 nei sotterranei di Palazzo Koch, la sede romana della Banca d’Italia. Un caveau, un cofanetto, e un passato che non vuole saperne di restare sepolto sotto la polvere della Repubblica. Scopriamo insieme il nuovo capitolo di una battaglia legale certo non meno affascinante, per esempio, di quella per l'Eredità Agnelli anche se forse meno sanguinosa (al presente).

Ottant’anni dopo, la Corona brilla ancora (in tribunale)

Maria Gabriella, Maria Pia, Maria Beatrice ed Emanuele Filiberto — le figlie e il nipote dell’ultimo re d’Italia — non si rassegnano. Il Tribunale di Roma lo scorso maggio ha detto no, i gioielli sono dello Stato. Ma loro, i discendenti di Casa Savoia, hanno deciso di non arrendersi alla sentenza: quei brillanti, dicono, sono un’eredità privata, non un bene pubblico. E così, come in un romanzo di Umberto Eco con inserti legali, si riapre il capitolo più scintillante della storia post-monarchica italiana.

A difenderli, come riferisce il Corriere della Sera, c’è l’avvocato Sergio Orlandi, che ribadisce: «Non furono mai confiscati, solo depositati». Parola chiave: deposito, come se il re Umberto II avesse semplicemente lasciato i gioielli “in custodia”, con l’intenzione di tornarci a prenderli dopo la tempesta del referendum del 2 giugno 1946. Tempesta che, com’è noto, spazzò via lo scettro ma lasciò il cofanetto.

Quando l’Italia cambiò pelle (ma non caveau)

Il 5 giugno 1946, appena chiarito l’esito del voto, l’avvocato Falcone Lucifero (nomen omen, direbbe qualcuno) si presentò alla Banca d’Italia con un cofanetto. Dentro, oltre seimila brillanti e duemila perle, una spilla con un rarissimo diamante rosa e altri gioielli degni di una regina. Niente documenti di successione, ma una semplice formula: “da tenersi a disposizione di chi di diritto”.

Chi di diritto, però, è una formula che oggi vale più di qualsiasi pietra preziosa. Perché per lo Stato quel “chi” è la Repubblica, non la dinastia. E il giudice Mario Tanferna lo ha detto chiaro: i beni della Corona erano pubblici già ai tempi dello Statuto Albertino, e la Costituzione repubblicana ha semplicemente ereditato quel principio. “Ad abundantiam”, aggiunge con gusto latino, i beni degli ex re sono stati “avocati dallo Stato”.

L'avvocato (socialista) Lucifero Falcone

Einaudi, diario di un presidente (monarchico nel cuore?)

Ma la storia, come sempre, ha un gusto per le sfumature. Perché in mezzo a codici e carte bollate spunta un nome ingombrante: Luigi Einaudi. Allora governatore della Banca d’Italia — e futuro Presidente della Repubblica — che nei suoi diari scrisse parole ambigue: «Le gioie spettano non al demanio dello Stato, ma alla famiglia reale». Frase che i Savoia brandiscono come Excalibur giudiziaria.

Luigi Einaudi

Peccato che il giudice Tanferna, con la pazienza di un filologo, tagli corto: “Non può essere attribuito valore decisivo ai diari”. Tradotto: Einaudi potrà anche essere stato un gigante, ma i suoi appunti personali non fanno giurisprudenza. Per di più, come ricorda Olina Capolino, ex capo degli avvocati della Banca d’Italia, quelle parole riflettevano “simpatie monarchiche non celate”. In altre parole, un pizzico di nostalgia più che un fondamento giuridico.

La domanda (im)pertinente: perché adesso?

Resta la curiosità: perché i Savoia rivendicano i gioielli proprio ora, dopo quasi 80 anni? Forse nostalgia, forse principio, forse un calcolo di immagine. E poi c’è il mistero complementare: perché lo Stato non ha mai chiesto indietro alla Banca d’Italia il tesoro? “Inefficienza burocratica e prudenza”, risponde Capolino, con una sincerità che sa di sentenza non scritta. In effetti, quei diademi dormono in un limbo dorato, troppo preziosi per essere dimenticati, troppo imbarazzanti per essere esposti.

I nostri “Crown Jewels” mai visti

La verità è che l’Italia, pur senza monarchia, ha il suo tesoro reale. Non brilla nelle teche di un museo, non incanta i turisti come i Crown Jewels della Torre di Londra, ma racconta un pezzo d’identità nazionale. Un simbolo congelato nel tempo, come se la Repubblica avesse ereditato non solo le istituzioni ma anche un segreto non risolto.

Palazzo Koch, in via Nazionale a Roma, sede della Banca d'Italia

E mentre i tribunali tornano a interrogarsi su chi abbia davvero diritto a quei gioielli, resta l’immagine affascinante — e un po’ malinconica — di una dinastia che non smette di cercare il proprio posto nella storia. O almeno, nei caveau di via Nazionale.


Conclusione (senza morale)
Che li si voglia vedere come reliquie di un passato ingombrante o come tesori da restituire ai legittimi eredi, i gioielli dei Savoia sono molto più che un contenzioso giudiziario. Sono l’emblema di un Paese che, anche quando parla di pietre preziose, finisce per interrogarsi su chi è, da dove viene e quanto del proprio passato è disposto a lasciare sepolto in cassaforte.

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