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L'Editoriale
02 Maggio 2024 - 14:15
Una giornata triste quella di ieri in una Torino sempre più triste non per la pioggia che, dati i tempi e l’inquinamento, è una benedizione ma per l’aria che tirava e che tira in città. La tradizionale manifestazione del primo maggio organizzata dai sindacati assomigliava più a un corteo funebre per accompagnare nell’ultimo viaggio lo scomparso lavoro che la grande meritata festa degli anni passati. Non esiste più la forte aristocrazia operaia che era l’anima della cultura industriale torinese, non ci sono quasi più neanche gli operai. Anche i leader sindacali delle maggiori confederazioni sindacali si sono tenuti alla larga da Torino. Il corteo, colorato solo per gli ombrelli, formato in larga parte da pensionati e dipendenti in maggioranza di enti pubblici (il comune di Torino è diventato il maggior datore di lavoro di Torino con i suoi 13.000 dipendenti), sembrava una manifestazione di reduci, con il sindaco e i gonfaloni d’ordinanza del comune e delle altre istituzioni.
Al fondo del corteo i cosiddetti antagonisti, centri “sociali”, anarchici, ecc. Dove la retorica è servita per coprire lo scempio degli ultimi anni dell’industria dell’auto e del suo indotto e i colpevoli di tale scempio di deindustrializzazione. Il vecchio Partito Trasversale della Fiat (PTF), consolidatosi nei tempi recenti nel “Sistema Torino”, ha aleggiato sul corteo fino sul tradizionale palco di Piazza S. Carlo. Giova ricordare come il PTF rigorosamente interpartitico e presente massicciamente nel consiglio comunale di Torino, nel Parlamento, nelle istituzioni e sostenuto dai giornali della famiglia Agnelli-Elkann, è stato di fatto il puntello della strategia degli Elkann della vendita della Fiat-Fca ai francesi della Peugeot, con la conseguente desertificazione dell’industria automobilistica a Torino. Un puntello che si è reso di tutta evidenza quando la Fiat-FCA portò la sua sede legale in Olanda, sottraendo a Torino, al Piemonte, all’Italia un imponibile fiscale importante corrispondente a qualche punto di PIL. Per quello che fu solo l’inizio della fine dell’industria dell’auto in Italia non ci furono scioperi o mobilitazioni e/o prese di posizioni concrete nel consiglio comunale di Torino, dove la sbornia delle olimpiadi e la “riconoscenza” per l’Avvocato, che le aveva favorite, silenziarono le poche cassandre che prevedevano quanto sarebbe accaduto in seguito.
Mirafiori quasi tutta ferma, lo stabilimento Maserati a Grugliasco sbaraccato, le altre fabbriche boccheggianti, gli operai rimasti in cassa integrazione e quasi tutti incentivati, con centomila euro di buonuscita, ad andarsene. Con Stellantis che ricatta il governo: no incentivi no produzione. L’acquiescenza al disegno dei padroni dell’industria dell’auto non è stata senza contropartite per la classe dirigente torinese. Il rafforzamento di nuovi poteri in città e nella regione hanno dato vita ad un meccanismo articolato per la gestione e il dominio politico ed economico. Il cosiddetto Sistema Torino che permette a professori del Politecnico di diventare sindaci, a sindaci di diventare banchieri, a politici o loro protetti di essere nominati membri delle fondazioni bancarie piemontesi, alle nomine nelle istituzioni, nei cda delle partecipate, nei musei, fin nelle più piccole e insignificanti delle associazioni. Tale complesso di potere, la cui esistenza veniva in passato addirittura negata, in occasione delle nuove nomine, a lui gradite, alla Fondazione S. Paolo è stato addirittura recentemente esaltato dal sindaco di Torino come una dimostrazione dell’efficienza e della bontà del Sistema Torino. Una volta l’efficienza di Torino si misurava sulla crescita del suo apparato produttivo, sul numero e qualità delle sue imprese e dei suoi lavoratori. Il primo maggio non è stata la festa dei lavoratori , per lo più giovani diplomati e laureati figli di operai e del ceto medio proletarizzato, che a migliaia sono fuggiti, negli anni, da Torino perché per loro il lavoro non c’era, se non sottopagato, tale da non potersi permettere di metter su famiglia. Non è stata la festa di una città dove aumenta solo il numero degli anziani e diminuiscono, più che altrove, i nuovi nati. Una città dove il suo ceto politico si appassiona più alla cronaca delle diatribe nel consiglio di amministrazione e di gestione della Fondazione CRT che ai problemi immensi di una città sfiancata che meriterebbe immaginazione e verve amministrativa purtroppo ben lontana dall’orizzonte. Il corteo del primo maggio è stata l’istantanea di un declino anche culturale.
La vecchia gloriosa cultura operaia, parte fondamentale dei contenuti politici della sinistra che fu, ha lasciato il passo a quella dei cosiddetti antagonisti, dei coccolati centri sociali che si incaricano di fare il lavoro sporco che la sinistra imborghesita della ZTL non vuole più fare. Questi sono arrivati col loro camion da corteo, spostate le transenne si sono posizionati sotto il palco sindacale, un centinaio sono saliti sul palco per arringare con i loro slogan pro Palestina i poveri lavoratori e pensionati infreddoliti. Una volta sarebbero stati fermati e messi in riga dal mitico Servizio d’Ordine sindacale. Ma anche quello è andato in pensione e smobilitato. Come hanno smobilitato i sindacalisti e i politici presenti che, a loro dire, “per evitare disordini” hanno graziosamente ceduto il palco a questi personaggi che neanche lontanamente assomigliano a dei lavoratori. Come è capitato qualche settimana fa al pavido Senato accademico dell’Università di Torino che per l’irruzione di analoghe formazioni filopalestinesi è stato costretto a interrompere la seduta e poi ad aderire alla richiesta imposta di non collaborazione con università israeliane. Questi episodi lasciano intravvedere quale sarà il cammino dell’avvenire di Torino, peccato che il sol(e) stia tramontando.
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