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Il buio dopo 27 anni. Il killer di Simonetta senza volto e nome

Sono passati esattamente 27 anni e cinque mesi dall'uccisione di Simonetta Cesaroni. Uno dei delitti più noti e controversi della cronaca italiana. Il giallo ha inizio la sera del 7 agosto del 1990, quando a Roma, in via Poma 2, a poca distanza da piazza Mazzini, all'interno dell’ufficio dell’Associazione italiana alberghi della gioventù, viene trovato il cadavere di Simonetta, 20 anni, trafitta da 29 colpi di arma bianca, forse un tagliacarte.

La sorella Paola, preoccupata perché Simonetta non rincasava, dà l’allarme assieme al fidanzato: sul posto arrivano anche il datore di lavoro della vittima, Salvatore Volponi, e il figlio. Simonetta è nuda, ma per il medico legale non ha subito violenza sessuale. Le indagini, condotte dal pm Pietro Catalani che ha affidato alla polizia gli accertamenti, ruotano subito attorno alla figura del portiere dello stabile, Pietrino Vanacore: nella stanza del delitto, infatti, è stato trovato poco sangue e gli investigatori ipotizzano che l’assassino abbia avuto tutto il tempo per pulire e far sparire ogni traccia.

Il 10 agosto, proprio Vanacore viene fermato per una macchia ematica sospetta sui pantaloni, ma il tribunale del Riesame lo scarcera venti giorni dopo: quella macchia non ha nulla a che vedere con il sangue di Simonetta. Il 26 aprile del ‘91 il gip Giuseppe Pizzuti accoglie la richiesta della procura e archivia la posizione di Vanacore, di due suoi familiari e di altre tre persone che frequentavano l’ufficio di via Poma. Il 3 aprile del 1992, un avviso di garanzia viene notificato a Federico Valle, nipote dell'anziano architetto Cesare Valle, che abita nel palazzo di via Poma e che la notte del delitto aveva ospitato Vanacore. A chiamare in causa Valle è un testimone austriaco, Roland Voller, che dice di sapere chi e perché ha ucciso Simonetta. Il giovane Valle e di nuovo Vanacore vengono prosciolti dal gip Antonio Cappiello il 16 giugno del 1993.

Il fascicolo, nel 2004, viene preso in consegna dal pm Roberto Cavallone che decide di sottoporre alle analisi dei carabinieri del Ris gli indumenti di Simonetta che, da tempo repertati, non erano stati più oggetto di approfondimento. Il 6 settembre del 2007 Raniero Busco, all'epoca del delitto fidanzato di Simonetta, viene iscritto sul registro degli indagati per omicidio volontario: stando alle analisi scientifiche, c’è compatibilità tra il suo Dna e le tracce biologiche scoperte su corpetto e reggiseno della vittima. Una lesione sul capezzolo sinistro di Simonetta, poi, sarebbe riconducibile a un suo morso.

Il 28 maggio del 2009 Busco viene rinviato a giudizio e il 3 febbraio del 2010 compare come imputato davanti alla corte d’Assise. Il 9 marzo, intanto, viene trovato morto in mare il portiere Pietrino Vanacore: tre giorni dopo avrebbe dovuto deporre come testimone. Per gli inquirenti è suicidio.

Il 26 gennaio 2011 Busco viene condannato a 24 anni di carcere. Il 24 novembre 2011 comincia il processo d’appello: viene disposta una nuova perizia che smonta le conclusioni dei consulenti della procura. Il 27 aprile, la Corte d’Assise d’Appello assolve Busco per non aver commesso il fatto. Il 26 febbraio 2014, il caso va in Cassazione. Nella sua requisitoria, il sostituto pg Francesco Salzano chiede che venga annullata l’assoluzione di Busco e che venga istruito un processo d’appello-bis. Per Salzano, l'alibi di Busco non sarebbe «convincente» e manca un'analisi accurata del morso. Ma Raniero Busco viene assolto dai giudici dell'Alta Corte. Caso chiuso, delitto irrisolto.

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