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07 Febbraio 2023 - 07:31
Ormai le date e i nomi sono confusi. Ma certi dettagli sono difficili da dimenticare, anche a distanza di decenni: «Il capannone era pieno di fumo che si alzava dai macchinari e veniva raccolto solo in parte dagli aspiratori» ricordano gli ex dipendenti dell’Ages di Santena, fallita il 15 maggio 2012 dopo aver dato lavoro a migliaia di persone per decenni. Uno di loro, Antonio Cappai, cita un particolare: «Gli addetti alle mescole avevano sempre la faccia nera, gli occhi si vedevano appena».
Secondo la Procura, quei vapori sono responsabili del tumore e del successivo decesso di sette operai. A processo per omicidio colposo plurimo sono Carlo Beccuti, Giuseppe Gerardi e Giovanni Pelizza, tutti ex dirigenti dell’azienda dove si lavorava la gomma per conto della Fiat. Che oggi resta coinvolta come responsabile civile (come Fca): «Dopo anni e anni di lunghe e faticose indagini, vengono finalmente analizzate le condizioni in cui i dipendenti erano costretti a operare, esposti a sostanze molto nocive - premette l’avvocata Laura D’ Amico, che assiste i lavoratori e le loro famiglie - Tutto senza che i vari responsabili aziendali abbiano adottato le necessarie misure, violando le norme sulla sicurezza negli ambienti di lavoro».
Oltre che dei sette decessi contestati nel processo, agli imputati venivano contestati altri undici casi, di cui nove per lesioni personali colpose: «Ma il giudice ha dovuto dichiarare quei reati prescritti: è passato troppo tempo dalla prima diagnosi della malattia» ricorda D’Amico. Anche sul resto del processo incombe la prescrizione, visto che sono passati decenni dai fatti contestati.
Interviene Gianni Gaude, tra i fondatori del “Comitato tumori” che da anni chiede giustizia per i lavoratori Ages: «Basta fare un giro al cimitero di Santena per capire la portata della strage: abbiamo contato 208 ex dipendenti morti di cancro solo fra i residenti in paese. Non solo: quando è arrivata l’Ages, i santenesi non hanno più potuto stendere i panni all’aperto. Li dovevano coprire con dei teli per evitare che diventassero neri per colpa della fuliggine che usciva dalla fabbrica».
Oggi gli imputati sono tutti in pensione, così come gli operai sopravvissuti chiamati a testimoniare cosa succedeva in quei capannoni al confine fra Santena e Villastellone. Ma la memoria deve correre a decenni fa e ricostruire quali fossero le misure di sicurezza e di tutela degli operai. Cappai, operato alla prostata e alla vescica, ripercorre i suoi 40 anni all’Ages: «Nel reparto dei ceppi freno c’era l’amianto, lo sapevamo ma non sapevamo che facesse male. Poi usavamo il talco per non far attaccare la gomma e l’aria era piena di nerofumo, soprattutto nel reparto delle mescole». Anche Giuseppe Elia ha avuto un tumore alla vescica: «Me l’hanno diagnosticato nel 2003 e dopo mi hanno spostato dalle presse alla finitura».
Gli avvocati degli imputati ricordano come Elia abbia fumato da quando era ragazzo a quando ha ricevuto la diagnosi. Secondo l’accusa, però, la colpa di tutti quei tumori erano i vapori che uscivano dai macchinari. D’altronde, a sentire gli ex lavoratori, di mascherine ne venivano usate poche.
«C’erano gli impianti di aspirazione ma, quando si aprivano gli stampi, assorbivano solo una parte dei fumi - considera un altro lavoratore, Gian Marco Broglio - Il resto investiva gli operatori». E sarebbero state queste sostanze nocive a uccidere i sette operai citati nel processo a carico degli ex dirigenti. Silvano Lingua si commuove a pensare ai colleghi scomparsi: «Io non ho malattie ma ho ricevuto benefici previdenziali per aver lavorato con l’amianto. All’epoca, però, non c’era scritto da nessuna parte che correvamo dei rischi. Ci dicevano solo di fare attenzione alle mani. Venivano solo dei medici con dei furgoni a farci dei controlli periodici». Conclude Gaude: «Se avvocati e imputati fossero stati nello stabilimento, capirebbero».
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