Il saldo dell’acciuga

A settembre, mese in cui mancò mia figlia e le giornate si accorciano velocemente, capita che mi arrivi addosso, con la nebbia vera, quella della malinconia. Sembra quasi amica, la malinconia, con quel suo odore antico di bucati al vento, ma non bisogna lasciarla vagare nel bosco dei pensieri perché poi si ferma e fa le ragnatele. Io pulisco quei rami coi ricordi belli, che sono quasi sempre dell’infanzia, quando son facili i pianti e le risate. D’estate, gagno, andavo coi fratelli a Laigueglia dalla nonna. Rude e affettuosa, ilare e severa, amica dei fiori e di Beethoven, nonna Nora aveva le sue manie (purgarci con l’olio di ricino appena arrivati) e le sue regole (niente pietanza se non avevamo finito la minestra, niente frutta se non avevamo finito la biova), e anche l’abitudine di farci lavorare ogni tanto. Lavori semplici: sbucciare i fagioli, bagnare i fiori, dare l’erba ai conigli, pulire le acciughe quando c’era il passo e lei le metteva sotto sale. Lo comprava lungo tutto l’anno per farsi la riserva, perché alla notizia del passo delle acciughe il sale spariva dalle tabaccherie in un amen. Andava al molo a comprarle a borsate, facendo anche tre gire da casa. Le barche arrivavano piene, col bordo della chiglia a pelo d’acqua, e i pescatori pur di venderle le davano per niente. Poi tutti lavoravamo in catena di montaggio: noi tre a decapitarle e vuotarle delle interiora, la serva Rosa a lavarle, la nonna a disporle in fila a strati, salandole a ogni strato, incrociandole nel successivo e mettendo una pietra sopra l’ultimo. Bastavano per tutto l’anno. Ogni volta che a merenda la nonna ci dava pane burro e acciughe io ero fiero della mia piccola fatica. Così si vien su bene. collino@cronacaqui.it