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L’armonica a bocca

armonica

depositphotos

Da ragazzo andavo spesso a sciare la domenica, o coi treni della neve o sui pullman. Appena questi ultimi arrivavano, uno della cricca correva ad occupare tutti i sedili in coda. Era il posto del casino. Lì appariva il vino coi panini, lì si fumava, si rideva, si cantava, si raccontavano le barzellette sconce, si corteggiavano le ragazze. Poi ci s’incrociava sulle piste, ma l’appuntamento era per la sera, stessa corriera e stessi posti. Chi aveva ‘agganciato’ una testa e se l’era cucinata anche sulla neve, si metteva accanto a lei e dopo un po’ “consumava”, nel senso che limonava, e già lì era un fioccare di sfottò invidiosi da parte di chi era rimasto a becco asciutto.

Il sottofondo musicale erano i cori. In genere mazzolin di fiori e valsugane, ma per far cantare tutti s’intonavano anche robe demenziali come “e un pompista, pì ‘n aotr pompista, fan doi pompista” oppure “la Svizzera, la Svizzera, la Svizzera l’è una nazion” oppure la lunghissima “A j’è j’alpin a la stassion ch’a speto ‘l treno, e quand che ‘l treno a l’è rivà, a l’è fermàsse”.

Alla fine, quando le ugole erano stanche, tiravo fuori l’armonica a bocca e suonavo. Avevo imparato in collegio, ero bravo, ma per due complimenti mi fregavo. Me lo spiegò il cardinale (goliardico) Renzo Ozzano. Lui era sempre il mattatore delle feste, grande barzellettiere idolatrato dalle fanciulle. “Chissà quanto cucchi” gli dissi una volta. “Macché – disse lui – se ci tieni a caricare stai zitto e vai di sguardi e pressioni sulla spalla dietro al capannello. Chi al centro suona la chitarra o l’armonica, chi fa ridere tutti, alla fine si ritrova da solo con gli sfigati e le cozze, e gli altri infrattati a consumare”. Aveva ragione.
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