La carruba

Il vecchio carrubo dietro casa, a Laigueglia, è sempre lì, al limite del bosco, coi suoi rami sempreverdi dal legno durissimo ed elastico, buono per farci manici d’accetta, e anche fionde. Una volta la carruba (un baccello marrone, piatto e lungo un palmo, fibroso e dolciastro) nutriva e medicava uomini e animali. Con la farina ottenuta dai semi (dolciastra e dal vago sapore di nocciola) si facevano polente buonissime, torte, frittelle e biscotti. Il suo decotto era una mano santa per la diarrea. Questo per gli uomini. Quanto agli animali, la si dava a cavalli, asini e maiali, che ne erano ghiotti e ne traevano energia, perché è molto più nutriente del fieno e della biada. Oggi i giovani non sanno più neanche cosa sia, la carruba, e se ne vedessero una non la riconoscerebbero. I pochi carrubi rimasti nutrono adesso animali selvatici e cinghiali. Sotto il “mio” carrubo di Laigueglia ho visto a terra alcuni baccelli, ne ho preso uno e non ho resistito alla tentazione di morderlo, come facevo da gagno quando nonna Nora ci “dava la larga” su per la collina e noi tornavamo la sera con una fame da lupetti. La regola della nonna però era “non si mangia fuori pasto”. Teneva ogni cibo sotto chiave, nella dispensa (il frigo non l’aveva). Unico rimedio per riempirsi un po’ lo stomaco prima di cena era il sacco del pane raffermo dei cani, i pomodori verdi dell’orto (quelli rossi la nonna li contava) e le carrube. Ho dato un morso, ed ecco il vecchio sapore dolciastro, come un flash. Son tornato bambino a tavola: “come mai non hai fame? Hai mangiato carrube?” – “No, nonna”. Lei fingeva di credermi, ma sapeva che era così. E in fondo credo che non le dispiacesse: tutto pane risparmiato. collino@cronacaqui.it