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L'intervista della settimana
23 Luglio 2023 - 08:00
Lino Banfi e Franco Barbero in "Al bar dello sport"
Porta Palazzo, la sommità della Mole Antonelliana, le vie del centro e molto altro. “Al bar dello sport” usciva al cinema quarant’anni esatti fa, nel 1983, diventando presto un cult. Girato a Torino, è una pellicola simbolo di un’epoca che non esiste più tra Totocalcio, partite tutte alla domenica, radioline e 90° Minuto. E sul set con Lino Banfi, Jerry Calà e Mara Venier, c’era anche lui, Franco Barbero, meglio noto come Felice, il cognato piemontese e burbero di Banfi. Che a distanza di quarant'anni ripercorre quei giorni, sul set col grande Lino.
Felice, anzi, Franco, anzitutto l’ha rivisto “Al bar dello sport”?
«Solo un paio di volte dopo l’uscita al cinema. Ero a casa con amici, insistevano per vederlo. È un film che mi rimarrà sempre nel cuore».
Lei nel film fa la parte di Felice, il cognato di Banfi. Piemontese doc, operaio Fiat. Come ha ottenuto la parte?
«Sapevo che la produzione girava il film a Torino ma non mi ero assolutamente proposto. Facevo teatro, in quegli anni. Ma il regista Francesco Massaro è venuto a vedere un mio spettacolo una sera al Gobetti. Alla fine mi ha detto: “Barbero, ce l’hai un agente?”. Io ho detto di sì, e Massaro ha replicato: “Bene, ti vogliamo nel film”. Ma sa qual è la cosa buffa?».
Quale?
«Io non dovevo affatto recitare nella parte di Felice. Il mio ruolo era quello di Walter, il barista del locale dove Banfi gioca la schedina vincente (ruolo interpretato da Tognella, ndr)».
E poi cos’è successo?
«Un giorno Massaro mi chiama dicendomi: “Barbero, non ho trovato nessuno per fare il cognato piemontese di Lino. Vuoi interpretarlo tu?”. E da lì è iniziato tutto».
Nel film lei recita prevalentemente in casa. In quale appartamento di Torino avete girato le scene con Banfi?
«Non eravamo a Torino, quella casa in realtà è un set cinematografico di Roma. E io a Roma ero di casa, all’epoca avevo un monolocale, dove mi appoggiavo quando dovevo andare nella Capitale a girare il film».
Com’è stato recitare con Lino Banfi?
«Per nulla difficile, Banfi è un professionista che ti mette a tuo agio sul set. Con lui ho poi recitato molti anni dopo, nel 2000, in “Vola Sciusciù”».
E fuori dal set, com’era Banfi?
«Un uomo semplicissimo, non si è mai dato delle arie. E non voleva che lo chiamassimo per cognome. “Chiamatemi Lino”, diceva sempre a tutti».
Nel film c’erano anche Jerry Calà e Mara Venier.
«Jerry Calà era simpaticissimo. Mara Venier beh, un po’ meno».
In che senso?
«Mara non dava molta confidenza. Era un po’ “signora”, in quegli anni era la fidanzata di Jerry Calà e fuori dalle scene non scherzava molto con gli altri attori. Certo, se si può dire, era davvero una “figona”, una delle donne più belle che abbia mai visto».
Torniamo al suo ruolo, Felice. Il classico torinese che parla in dialetto, tutto casa e Fiat. È stato difficile interpretarlo?
«No, anzi, mi sono divertito tantissimo. E poi mio papà era infermiere allo stabilimento di Mirafiori e poi ancora all’Iveco. Il personaggio di Felice l’ho interpretato pensando ai racconti di una vita di mio papà. La Fiat, la “feroce” come la chiamavano allora, è un po’ di famiglia per me».
C’è una scena di “Al bar dello sport” a cui lei è più legato?
«Quella dell’Alfetta senza dubbio. Quando io dico a Banfi: “Lino, compriamo l’Alfetta”?, dopo che Banfi ha fatto 13 al Totocalcio. Quella scena è un tormentone ancora oggi per me. C’è tanta gente che me la ricorda. Giusto per fare un esempio, un paio di anni fa un ragazzo è venuto ad aggiustarmi l’antenna a casa. Mi ha chiesto che lavoro faccio. Gli ho detto che sono un attore e ho recitato in “Al bar dello sport” con Banfi. E questo giovane, che quando è uscito il film non era nemmeno nato, ha esclamato: “Ah Lino, compriamo l’Alfetta”? E lo stesso è successo a Roma un giorno sul tram, con un signore».
Riguardo proprio alla famosa scena dell’Alfetta. Lei cita quest’auto nel film, dove Felice possiede la Uno che poi Banfi si vende. Ma Franco, nella vita reale, che macchina aveva?
«Non avevo l’Alfa Romeo e nemmeno la Fiat Uno. Quando abbiamo girato “Al bar dello sport”, io giravo con una Daimler, un’auto che non c’entra proprio nulla con le altre due».
E il calcio, lei è tifoso?
«È buffo da dire, visto che sono ricordato per un film incentrato sul mondo del calcio. Il calcio non mi è mai piaciuto, anzi. Da ragazzo sono andato a vedere una partita. Giovanili, non certo di Serie A. Ad un certo punto mi è arrivata una pallonata in faccia. In quel momento ho detto: “Basta, mai più calcio. E non andrò mai allo stadio per non prendermi altre pallonate”».
E la schedina del Totocalcio, l’ha mai giocata?
«Qualche volta, ma non vincevo mai e allora ho smesso. Non sono stato fortunato come Lino nel film».
Le pesa essere ricordato principalmente per quel film?
«Per niente. La mia carriera l’ho fatta, specie a teatro. Sono allievo di Macario, qualche insegnamento da lui l’ho avuto. Anche se, secondo Macario, io non dovevo fare l’attore».
Perché?
«Macario diceva che non ero né troppo alto né troppo basso, magro o grasso, pelato o capellone. Insomma, non avevo una caratteristica predominante. Ma quando mi ha visto recitare ha cambiato idea».
L’hanno pagata bene per la parte di Felice nel film?
«Devo essere sincero? Guadagnavo di più a teatro».
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