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19 Maggio 2024 - 05:50
Il nome tecnico del virus della mucca pazza Creutzfeldt-Jakob
La mucca pazza torna a far paura a Torino. Il virus inglese sembrava ormai un ricordo lontano invece, a distanza di tanti anni, uccide ancora. Anche perché i sintomi che portano a morte certa possono non essersi ancora manifestati in alcune persone infette, nonostante siano passati più di 20 anni dall’epidemia. È un esempio il caso di una signora torinese di 48 anni, che chiameremo Maria, morta quindici giorni fa nell’hospice di San Vito dopo un calvario durato poco più di un anno. «I medici pensavano si trattasse di bipolarismo visti i sintomi, poi hanno diagnosticato il virus della mucca pazza ma non c’era nulla da fare» spiegano i conoscenti della donna che lascia un marito e una figlia.
La signora Maria aveva trascorso il periodo dell’Università a Londra vent’anni fa e, probabilmente in tale circostanza, a neppure trent’anni di età, aveva mangiato della carne contaminata dal morbo, contraendo così la malattia. Dopo essersi laureata era tornata a Torino dove aveva messo su famiglia. Poi, un anno e mezzo fa, ha accusato i primi dolori che si sono trasformati in un principio di demenza che è progressivamente peggiorata fino a ucciderla. Nell’incredulità di amici e familiari. L’incubazione del virus della mucca pazza, il cui nome tecnico è malattia di Creutzfeldt-Jakob, del resto può essere molto lunga, dai 4 ai 40 anni, e si manifesta improvvisamente con disturbi sensoriali e forti dolori diffusi, perdita di memoria, movimenti involontari, sino alla comparsa di demenza, mutismo, immobilità e morte.
«In Italia ci sono ancora 60 casi di decesso all’anno per il virus della mucca pazza e l’incubazione può essere molto lunga» afferma il professor Giovanni Di Perri, direttore del dipartimento di malattie infettive dell’ospedale Amedeo di Savoia e della scuola di specializzazione dell’Università di Torino. Di Perri ricorda bene il periodo dell’epidemia di mucca pazza che si era diffusa a partire da metà degli anni Novanta e poi in Italia a partire dal 2001 con il primo bovino infettato dal morbo in provincia di Brescia. «In quegli anni ero in Inghilterra e in quel periodo i bovini venivano alimentati con carcasse di altri animali e si contaminavano». «Alla base - precisa l’infettivologo - ci sarebbero queste particelle, dette prioni, in grado di interferire sulla sintesi proteica con il deterioramento della funzione mentale. È una sorta di encefalopatia molto veloce che porta alla morte».
Di più stringente attualità, cambiando argomento, c’è poi il timore del ritiro dal mercato del vaccino anti-Covid Astrazeneca. Una decisione improvvisa al centro di varie polemiche. «Si sono verificati episodi di trombosi sospetti, ma si parla di un caso ogni 10mila» spiega Di Perri. «C’erano vaccini più efficaci - aggiunge il professore -, come Pfizer e Moderna, che sono stati presi come modello per realizzare i vaccini antinfluenzali».
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