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l'intervista
26 Ottobre 2024 - 06:45
Paolo Operti, past presidente di Ama
Attrarre investimenti e talenti dall’estero: è una carta fondamentale per il futuro dell’Italia, del Piemonte e di Torino, pensando tra l’altro che, dopo il 2026, verrà meno la spinta del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Il tema è stato al centro del congresso dell’Ama, l’associazione che riunisce commercialisti di Italia, Francia e Spagna, che si è tenuto a Torino. Il commercialista torinese, Paolo Operti, ne è il past presidente.
Come è la situazione?
«Secondo la piattaforma di analisi internazionale Gai (Global Attractiveness index), nel 2023 i cosiddetti Ide (Investimenti diretti esteri) in Italia sono stati di 18,2 miliardi di euro, il 2% di quelli dell’intera Unione Europea. E’ un dato che si può migliorare. Il nostro Paese e la nostra Regione offrono ottime opportunità di investimento».
Ma allora quali sono gli ostacoli agli investimenti esteri?
«Gli stranieri temono i cambiamenti repentini delle regole. Vogliono norme che siano chiare e semplici, soprattutto nell’ambito fiscale. Un’impresa avvia un processo di studio che può durare mesi e non vuole trovarsi alla fine con le carte in tavola cambiate. E poi nel campo della giustizia civile ci sono tempi lunghi e incertezze interpretative. Comunque, ad esempio, i tempi di costituzione di una società e di avviamento dell’attività sono molto migliorati».
Molti pensano: gli stranieri investono perché ci vogliono colonizzare.
«In alcuni casi, che riguardano anche Torino, si è chiesto al governo di ricorrere al Golden power. Molti timori sono però anacronistici e nascono dal fatto che l’arrivo di nuovi attori economici cambia certe regole del gioco. C’è un paradosso: da un lato si spinge perché l’imprenditore straniero investa in Italia, e dall’altro c’è il timore della colonizzazione. Esemplare, visto che siamo a Torino, è il caso Stellantis: si chiede di favorire l’arrivo di un produttore straniero, in particolare cinese, in alternativa a quello che si ritiene in sostanziale ripiegamento».
A proposito di Stellantis, qual è il suo parere?
«A Torino abbiamo avuto un manager come Sergio Marchionne che ha fatto quasi un miracolo, riportando la Fiat a una dimensione e a una considerazione di primo piano a livello internazionale. Dopo questa fase penso che si sia ritenuto necessario trovare ulteriori aggregazioni per rafforzarsi. Comunque, il Piemonte è ancora la prima regione italiana per numero di imprese della componentistica automotive. Registra circa il 45% dei ricavi del settore automobilistico nazionale, qui è possibile trovare il know-how necessario per la mobilità del futuro. Certo, per questa filiera il momento è difficile e non solo per le scelte di Stellantis, ma per la spinta forse un po’ troppo accelerata verso la propulsione elettrica e penso che possano esserci delle modifiche al riguardo».
Quanto sono attrattivi il Piemonte e Torino?
«Secondo un recente report del Financial Times, il Piemonte è la sesta regione attrattiva per investimenti in Europa. Ci sono realtà imprenditoriali di primissimo ordine non solo nell’automotive, ma nell’aerospazio, nell’alimentare, nel tessile, nell’Ict. Torino poi è una città bellissima e di grande cultura imprenditoriale e non solo. Se, ad esempio, un marchio del lusso come Cartier ha deciso di venire a Torino, dando lavoro a 400 persone, c’è un motivo. Sono ottimista sul futuro della città».
E che cosa ci vuole per attrarre più talenti o per far rientrare i talenti che sono andati via?
«C’è una classifica del Global Talent Survey che piazza l’Italia al 12° posto al mondo per attrattività lavorativa. Dobbiamo migliorare e per farlo ci sta aiutando sicuramente la cosiddetta normativa sugli “impatriati”, rivolta a chi abbia una cultura universitaria. Offre rilevanti vantaggi di natura fiscale. Ma chi pensa di venire in Italia valuta tre cose in particolare: stipendio, crescita professionale e flessibilità, cioè la possibilità di cambiare azienda e fare nuove esperienze. Da questo punto di vista soprattutto per i giovani le carriere sono un po’ frenate, all’estero sono più rapide e meglio retribuite».
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