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30 Novembre 2024 - 09:42
Il corteo in piazza Castello
Il corteo indetto da Cgil e Uil a Torino, in occasione dello sciopero generale, è stato il termometro di un cambiamento che, come un lento ma inesorabile virus, ha contaminato il cuore pulsante della nostra industria. Il corteo non ha avuto la forza, la passione e l'entusiasmo che solo pochi decenni fa avrebbero fatto tremare le strade della città. Le bandiere sventolavano, ma in modo meno fiero, e il passo dei manifestanti, purtroppo, non dava l'impressione di marciare verso una vittoria. Semmai, sembrava più un'epitaffio. C'è qualcosa di profondamente simbolico nel fatto che la Cisl non abbia aderito a questa manifestazione, considerando politico questo sciopero generale. Una divisione che non fa che sottolineare la difficoltà dei sindacati nel presentarsi uniti, ma soprattutto la debolezza delle organizzazioni rispetto a un sistema economico che ha demolito le garanzie salariali e il valore del lavoro.
Torino, città che fino agli anni 2000 era il centro nevralgico della più alta concentrazione industriale in Italia, oggi è uno scenario di disgregazione, dove il rumore delle fabbriche chiuse ha preso il posto della forza di un movimento operaio che ha plasmato la città. Oggi il corteo, che avrebbe dovuto essere il segno di un'unità di intenti, era quasi un eco lontano di un passato che oggi sembra quasi appartenere a un altro mondo. La classe operaia, quella che un tempo con orgoglio marcava la propria presenza nelle piazze di Torino, non c'è più. È una classe che è stata cacciata al fondo della modernità.
Siamo lontani da quei cortei che fino a qualche decennio fa, invadevano le strade con migliaia di lavoratori e le piazze vibravano di una rabbia capace di scuotere le fondamenta del sistema. La Torino di oggi, invece, non è più la città della Fiat, della Lancia, delle industrie meccaniche e chimiche.
La deindustrializzazione che ha investito la città ha trasformato il territorio in un deserto produttivo, dove una parte consistente della popolazione vive nell'incertezza. Le fabbriche che un tempo davano lavoro e identità sono ora spesso vuoti silenziosi, che raccontano storie di disoccupazione, disillusione e rassegnazione. L'industria del Piemonte, che negli anni '70 era la più concentrata e attiva d’ Italia, è stata smantellata dal processo di globalizzazione. La concorrenza internazionale, alimentata dalla mancanza di regole, ha falcidiato il lavoro nei nostri territori. Il costo del lavoro, più basso e spesso privo di qualsiasi garanzia, in queste nazioni ha fatto sì che le aziende italiane non riuscissero più a competere, costringendo a delocalizzazioni e chiusure che hanno impoverito le nostre città, come Torino, e le nostre comunità. Oggi non c'è più quella generazione di lavoratori che con fatica e determinazione ha costruito il benessere del paese.
Parlando con alcuni dei partecipanti, si percepiva una sorta di rassegnazione, un'amarezza che non si nascondeva dietro alle bandiere o ai volti. La delusione era palpabile. C'erano poca allegria, pochi slogan gridati con forza. Il cronista si chiede cosa ci facessero nel corteo tante facce smarrite di onesti lavoratori. Non c'era quella passione vibrante che caratterizzava i cortei degli anni passati, non c'era quella sicurezza che solo il lavoro stabile e dignitoso sapeva dare. Quello che più ha impressionato il cronista è stato il vedere lo striscione Fiom Mirafiori Meccanica- Mirafiori Carrozzerie seguito da non più di 250/300 lavoratori quando una volta se ne vedevano almeno diecimila e dietro lo striscione di quella che qualcuno indica come la fabbrica del futuro, la Thales Alenia Space Italia non più di trenta persone. Certo hanno fatto massa le rappresentanze provinciali giunte da tutto il Piemonte, ma il tono era sommesso l’andatura moscia. Salvo forse per il gruppo di Alessandria che con l’aria di chi fa una gita organizzata nel capoluogo cantava e suonava con due fisarmoniche, senza peraltro contagiare i vicini.
La scena del corteo odierno a Torino ha avuto anche momenti di contrasto, che hanno messo in luce non solo la debolezza del movimento sindacale, ma anche le difficoltà interne alle diverse forze politiche e sociali che hanno tentato di animare la manifestazione. Una delegazione particolarmente stridente è stata quella del Partito Democratico, che ha partecipato con una piccola, ma visibilmente fuori luogo, rappresentanza di signore fresche di parrucchiere e signori in casual, che sembravano più adatte a una passeggiata di relax che a una battaglia sindacale. In tutto, una decina di persone, che sfilavano quasi smarrite tra le file dei lavoratori, come pesci fuor d'acqua. La loro presenza, più che di sostegno alla causa, è sembrata quasi un tentativo di legittimare il corteo con la solita presenza politica, ma che ha finito per enfatizzare la distanza tra le élite politiche ed economiche e le reali esigenze di chi ancora oggi combatte per il lavoro e per i diritti.
A chiudere il corteo, invece, sono arrivati i "colectivos", i gruppi dei centri sociali, che si sono distinti per la loro attitudine provocatoria e la scelta di sventolare bandiere palestinesi. Gli slogan, spesso truculenti, contro la polizia e i carabinieri, hanno dato il tono a una chiusura che sembrava più un atto di diserzione che una conclusione. La loro presenza ha risvegliato la memoria dei vecchi cortei, quelli più violenti e radicali, tanto che poi sono sfociati in scontri con le forze dell’ordine, ma oggi appaiono più come una ruga nel volto stanco della protesta. Subito dopo di loro, quasi a voler prendere le distanze, sono arrivati i Cub-Cobas, con un centinaio di persone e un camioncino pieno di bandiere e striscioni. Eppure, a ben guardare, sembrava che il numero di bandiere fosse maggiore rispetto a quello delle persone effettivamente presenti. Lo spettacolo non ha fatto che confermare quanto la partecipazione fosse modesta, con un gruppo che ancora una volta ha tentato di dare visibilità alla propria causa, ma che è apparso a sua volta impalpabile rispetto alle aspettative. Non si sono viste grandi adesioni, e la manifestazione si è conclusa con una sensazione di vuoto, con i manifestanti che sembravano sparire nel nulla, senza una vera visione condivisa per il futuro.
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