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CASO INTERNAZIONALE
17 Febbraio 2025 - 05:30
Foto di repertorio
Stefania lo aveva messo nero su bianco nella denuncia presentata ai carabinieri: «Non voglio più tornare in Inghilterra perché ho paura per la mia vita e per quella di mio figlio». Ma i giudici hanno stabilito proprio quello che lei temeva di più: «Il bambino deve rientrare nel luogo di residenza abituale» si legge nella sentenza del Tribunale dei minori di Torino. «È come se la giudice, donna come Stefania, le avesse fatto un’altra violenza» si sfoga il fratello, che ha voluto rendere pubblica la sua rabbia per la decisione dei magistrati torinesi di “rimandare” madre e figlio nel Paese dove vive l’uomo che lei ha denunciato per maltrattamenti.
Per capire cosa sia successo, bisogna fare un passo indietro e ricostruire una vicenda che ha superato i confini italiani. E che va analizzata tenendo conto dei confini imposti dalla legge. Il punto di partenza sono gli anni di abusi che la 49enne, italiana di origine argentina, ha denunciato di aver subito prima in Spagna e poi in Inghilterra: «Io lavoravo e lui non faceva niente, eppure mi diceva che ero buona a nulla - ha raccontato Stefania ai carabinieri (il nome è di fantasia per tutelare lei e il suo bambino, di soli 10 anni) - Subivo violenze e minacce, anche davanti al bambino. Non avevo le chiavi di casa o i soldi per mangiare». Una situazione che, probabilmente, ha pesato sulla condizione di salute di mamma e figlio: a lei è stata diagnosticata una depressione mentre lui aveva problemi comportamentali, tra cui la tendenza a farsi addosso i propri bisogni. È anche per questo che Stefania è scappata di casa ed è stata accolta in una serie di rifugi in Inghilterra: «Ma mio marito si è spacciato per me e mi ha trovato tutte le volte». Poi, nonostante denunce di sottrazione di minore per lei e divieti di avvicinamento per lui, la famiglia si è riunita. Fino a quando la donna ha deciso di prendere il bambino e raggiungere i fratelli a Torino, dove ha fatto denuncia e si è rivolta a un Centro antiviolenza.
Intanto il padre ha avviato una causa per sottrazione di internazionale di minori, che ha riguardato tribunali in Inghilterra e in Italia. Ed entrambi hanno fatto riferimento alla Convenzione dell’Aja del 1980, che impone il ritorno immediato del minore nel caso in cui sia stato “illecitamente trasferito”. Secondo i giudici, questo è il caso di Stefania e di suo figlio, nonostante quanto sostenuto dall’avvocato Elena Gontero nella difesa a nome della donna: «La Convenzione stabilisce anche che i giudici non sono tenuto a disporre il rimpatrio nel caso in cui il minore venga esposto a rischio fisici e psicologici, come può succedere a questo bambino».
Niente da fare, sia il tribunale inglese sia quello italiano hanno imposto il rimpatrio. Da qui la rabbia della famiglia torinese di Stefania: «Questa vicenda è la dimostrazione che non sempre giustizia e diritto coincidono - si sfoga il fratello - La Convenzione dell’Aja è stata applicata senza considerare tutta la violenza domestica subita da mia sorella e le prove false che suo marito ha presentato ai giudici, in Italia e in Inghilterra (per questo lei lo ha anche denunciato per frode processuale, ndr). Si parla tanto di difesa delle donne ma, alla fine, lei ha subito violenza anche dai magistrati, donne come lei».
Il risultato è considerata una beffa: «Adesso Stefania e suo figlio sono tornati in Inghilterra da un uomo che non rispetta nessuna autorità e che, in aeroporto, ha cercato di portarsi via il bambino. Abbiamo dovuto chiamare i carabinieri qui e la polizia in Inghilterra, altrimenti sarebbe finita male».
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