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L'appello
17 Febbraio 2025 - 07:00
«Vogliamo parlare dei problemi del “sistema” di tutela delle donne prima che si verifichi il dramma dei femminicidi». Adriana Sumini parla senza puntare il dito. Però le sue parole, così come quelle della collega Simona Finetti e dell’avvocato Elena Gontero, hanno un significato forte. Perché arrivano da tre professioniste che lavorano da anni a fianco delle donne vittime di violenze. E che ora vogliono «aprire degli interrogativi, altrimenti si rischia che queste donne subiscano una seconda violenza per colpa delle inadeguatezza del sistema che dovrebbe sostenerle».
La causa scatenante di questa presa di posizione sono le due storie che raccontiamo negli articoli linkati qui sotto. E che non hanno avuto l’esito sperato dalle protagoniste e da chi le ha accompagnate nel loro percorso (visto che una è stata archiviata e l’altra ha portato al ritorno della donna in Inghilterra, da cui era scappata con il figlio per allontanarsi dal marito).
«Sono due storie complesse ma con elementi condivisi in tanti casi che noi affrontiamo - entra nel merito Sumini, responsabile dei servizi di contrasto alla violenza di genere della cooperativa Mirafiori - Entrambe fanno riflettere su come le donne vengono sostenute dopo che la loro identità psichica è stata distrutta. E ci fa dire: cosa non riusciamo a fare come “sistema” a fronte della decisione di denunciare e di uscire dalla situazione di violenza? Che cosa non funziona?».
Quale è la risposta che vi siete date? «Spesso le donne incontrano delle grosse incomprensioni da parte del sistema - rispondono Sumini e Simona Finetti, operatrice che lavora in casa rifugio e nel centro antiviolenza - Non vengono credute e addirittura vengono giudicate sul perché, per esempio, sono state così tanti anni con il maltrattante. Lui viene comunque considerato un buon padre e riceve meno controlli rispetto alle donne che, in sostanza, ricevono l’opposto di quello che dovrebbe accadere, cioè il sostegno e l’empatia». Aggiunge l’avvocato Elena Gontero, che segue molti dei casi della cooperativa Mirafiori: «Capita che siano donne deboli, che non sanno gli strumenti su cui possono contare. E vanno aiutate e informate a fondo: non sempre succede, tanto che spesso sono i figli a dennciare per loro». Non solo: «Noi incontriamo troppo spesso delle donne con ferite talmente profonde che, senza arrivare al femminicidio, arrivano alla morte psichica. Ma spesso non hanno lividi tangibili».
Da questi ragionamenti parte l’appello alle istituzioni che compongono il sistema, dagli assistenti sociali agli psicologi, fino ad avvocati e magistrati: «Vogliamo interrogarci e interrogare tutti su come sostenere meglio la narrazione delle donne e la loro ricerca di appropriarsi della loro identità, soprattutto in casi complessi che coinvolgono minori».
Viene da chiedersi anche il contrario, però: una donna che denuncia va sempre creduta, a prescindere? «No, anzi - rispondono Finetti, Sumini e Gontero - Siamo attenti al radicamento delle storie per consentire a noi ma soprattutto alla donne di capire di cosa stiamo parlando. L’obiettivo è riconoscere assieme il problema: tante vengono e raccontano ma poi spariscono o vengono indirizzate altrove. Perché non hanno subito violenze ma sono protagoniste di conflitti oppure cercano di approfittare della situazione».
Infatti ci sono anche procedimenti penali per maltrattamenti che terminano con l’archiviazione e o l’assoluzione degli uomini. E non sempre è colpa di un sistema che non funziona: «In generale noi diciamo alle donne di trovare riscontro alle loro parole, diventando una sorta di detective. Ma così, in sostanza, diciamo loro che il “sistema” ha bisogno che vadano oltre affinché vengano credute, con tutti i rischi del caso. Il risultato è che noi lavoriamo sulle donne per rassicurarle sul fatto che le loro denunce verranno credute, più di quanto lavoriamo per aiutarle a uscire dalla spirale di violenza: così sono messe a dura prova e si chiedono se valga davvero la pena».
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