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Arte
26 Maggio 2025 - 16:05
Renzo Piano, amico di lunga data di Sebastião Salgado, lo ricorda con affetto: «Non se n’è andato davvero, ora vive nel mio Pantheon personale, il luogo dove custodisco gli affetti più cari». Salgado, celebre per i suoi scatti in bianco e nero che hanno raccontato le storie più intense dell’umanità, avrebbe dovuto accompagnare Piano a Reims per una mostra speciale del figlio Rodrigo, artista con sindrome di Down, che propone un’esplosione di colori.
Il fotografo brasiliano, noto in tutto il mondo per la sua arte, era particolarmente orgoglioso del talento cromatico di Rodrigo. Proprio questo entusiasmo per i colori, così lontano dal suo bianco e nero, è un ultimo segno della sua vita piena di contrasti. La mostra, prevista nella chiesa dismessa del Sacré-Cœur di Reims, avrebbe messo in luce circa ottanta opere del giovane artista, un appuntamento che Salgado attendeva con grande emozione.
Renzo Piano racconta con commozione le ultime settimane del fotografo, un uomo definito «indistruttibile» per le sue imprese in luoghi estremi come la foresta amazzonica, dove a 75 anni si calava ancora dagli elicotteri per vivere con tribù remote. Dopo aver superato guerre, incidenti e pericoli, sembrava che una recrudescenza della malaria contratta tempo prima lo abbia sopraffatto.
Nonostante avesse dovuto rinunciare a un tradizionale incontro con amici a Parigi, Salgado manteneva un filo di speranza nella sua voce stanca. Renzo Piano però si trova ora a fare i conti con la sua assenza fisica, ma sottolinea che un amico così non può scomparire: «Resta dentro di noi, in un tempietto sacro dove conservo i ricordi più belli».
Salgado, che in passato aveva confessato a un’intervista di non credere in Dio o nell’aldilà, trovava invece conforto nelle riflessioni con il Papa Francesco, il quale sosteneva che nessuno nasce ateo, poiché siamo tutti immersi in un mistero più grande. Curioso e aperto a tutto, l’artista si spinse anche fino al CERN di Ginevra, dove visitò l’acceleratore di particelle più potente al mondo con la scienziata Fabiola Gianotti.
Per Salgado la perfezione non era solo estetica ma anche tecnica: controllava ogni stampa delle sue fotografie, a volte migliaia di copie, curando ogni minimo dettaglio come un artigiano appassionato. Il suo lavoro non era solo creatività ma un impegno civile e umano, perché per lui dietro ogni scatto c’era sempre una storia da scoprire. Non si limitava a fotografare ma entrava in empatia, si faceva accettare da chi ritraeva, conquistando la loro fiducia.
Un esempio emblematico è il periodo trascorso nelle miniere d’oro di Serra Pelada, dove passò settimane ad osservare i minatori prima di prendere la macchina fotografica, aspettando di guadagnare la loro stima e mostrare di stare dalla loro parte.
Salgado era maestro nell’arte della pazienza: sapeva aspettare il momento perfetto per immortalare la luce, l’ombra, l’attimo decisivo. Per venticinque anni tornò in Amazzonia per costruire un archivio visivo che ha lasciato una testimonianza indelebile. Per lui il bianco e nero non era una semplice scelta estetica, ma l’essenza pura della realtà, una sintesi di luce e ombra che racconta l’umano senza artifici.
Nella sua “bussola cieca”, come la definisce Piano, c’erano valori forti: l’attenzione all’uomo, alla sua dignità, alle emozioni più profonde. Salgado affrontò esperienze dolorose e difficili, ma mai si sottrasse alla sofferenza altrui, anche quando l’animo chiedeva riposo: «A un certo punto disse che non ce la faceva più a vedere tanto dolore e si dedicò a fotografare la natura», racconta Piano.
Lo scorso 24 maggio, Lélia Wanick Salgado, compagna di una vita e partner artistica, insieme al figlio Rodrigo, si trovava a Reims tra le delicate vetrate colorate della chiesa dove si sarebbe tenuta la mostra. Un’immagine che racconta con forza il legame indissolubile tra la famiglia e l’arte.
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