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la legge mai approvata

Fine vita, il silenzio del Parlamento: così la Corte Costituzionale scrive la legge sul suicidio assistito

Dal 2019, la Consulta chiede una legge sul suicidio assistito. Il Parlamento resta immobile, e la Corte, sentenza dopo sentenza, ne definisce i contorni legali

Fine vita, il silenzio del Parlamento: così la Corte Costituzionale scrive la legge sul suicidio assistito

Da anni in Italia si verifica un fatto terrificante: la Corte Costituzionale chiede al Parlamento di legiferare sul suicidio assistito, ma il Parlamento resta inerte. Così, è la stessa Corte a intervenire con sentenze sempre più dettagliate, delineando ciò che dovrebbe essere materia legislativa. «Sta facendo il lavoro di Parlamento e Governo», dice Irene Pellizzone, costituzionalista.

Il suicidio assistito – ossia autosomministrarsi un farmaco per morire in certe condizioni – è legale in Italia dal 2019, grazie alla storica “sentenza Cappato”. Tuttavia, a mancare è una legge che stabilisca concretamente modalità e tempi di accesso alla pratica. L’inerzia politica ha costretto vari tribunali a rivolgersi alla Consulta, che ha chiarito requisiti e limiti con sempre maggiore precisione.

La Corte, il cui compito sarebbe solo verificare la costituzionalità delle leggi, si trova così a sostituirsi al legislatore. Da anni infatti chiede una “disciplina appropriata”, puntualmente ignorata. Intanto, l’assenza normativa ha causato gravi sofferenze a molti malati, spingendo diversi attivisti – tra cui Marco Cappato – ad atti di disobbedienza civile, accompagnando persone a morire in Svizzera e autodenunciandosi per chiedere una legge sul fine vita.

Tutto cominciò nel 2017 con il caso DJ Fabo. La Corte, interpellata, concesse un anno di tempo al Parlamento per legiferare. Non accadde nulla. Così, nel 2019, dichiarò non punibile l’aiuto al suicidio in presenza di quattro requisiti: consapevolezza, patologia irreversibile, sofferenze intollerabili e dipendenza da trattamenti di sostegno vitale.

Proprio questo quarto requisito è stato oggetto di interpretazioni restrittive, spesso inteso solo come dipendenza da respiratori. Alcune ASL si sono rifiutate di verificare i requisiti, o lo hanno fatto dopo lunghi contenziosi. Nuove sentenze, nate da altri atti di disobbedienza civile (come quelli per Elena e Romano, malati terminali accompagnati in Svizzera nel 2022), hanno spinto la Corte a chiarire ulteriormente il concetto: un trattamento vitale può essere anche una terapia salvavita o un’assistenza continuativa da parte di caregiver. Ed è valido anche se rifiutato dal paziente.

L’ultima sentenza, emessa martedì, ribadisce questi principi. Inoltre, la Corte ha sollecitato le ASL e i comitati etici ad adeguarsi e ha rinnovato l’appello al Parlamento affinché finalmente legiferi in materia.

Nel frattempo, in Parlamento giace una proposta di legge presentata nel 2022 dal senatore PD Alfredo Bazoli. Il testo è ritenuto troppo restrittivo e vago sui tempi, e non ha mai proseguito il suo iter. Il tema è divisivo e politicamente scomodo: «Un sabotaggio strisciante», lo definisce Cappato.

Intanto, la Corte continua a colmare un vuoto che spetterebbe alla politica riempire.

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