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A 40 anni dalla tragedia
29 Maggio 2025 - 09:00
Lo stadio Heysel prima della finale tra Juventus e Liverpool (foto gentilmente concessa da Salvatore Giglio)
“Ci è andata bene, per fortuna eravamo dalla parte giusta”. A 25 anni Enzo Gorgone lavorava a bottega alla macelleria Ghiotti in centro in via san Tommaso. Le sue giornate erano scandite dal lavoro, la famiglia - abitante in Santa Rita -, dagli amici e dalla frequentazione con la fidanzata Patrizia, poi diventata sua moglie. Ad attenderlo, ogni santa domenica (spesso anche in trasferta) la Vecchia Signora, la fidanzata d'Italia per antonomasia, la Juventus. Si, perché Enzo, ora 65enne, ha seguito la sua grande passione ovunque. Con i suoi amici, dopo aver chiesto un permesso al signor Ghiotti, dopo che era già stato un paio di anni prima ad Atene (quella volta la Juve perse per un gol di Felix Magath contro l’Amburgo), aveva acquistato il biglietto anche per la finale di Bruxelles tra Juventus e Liverpool: "Eravamo partiti con lo Juventus Club Primo Amore, quello di via del Carmine. In via Bogino non c'era più posto – ricorda Enzo -. Siamo arrivati presto a Bruxelles: una volta scesi dal bus, abbiamo fatto un giro e pranzato. Tutto era apparentemente tranquillo, abbiamo incrociato qualche tifoso inglese, con delle birre in mano. Qualcuno ci aveva raccontato di qualche scaramuccia ma niente di più...". "Nel pomeriggio tardo - continua Enzo - abbiamo fatto il nostro ingresso nello stadio re Baldovino. Eravamo posizionati proprio dall’altra parte del settore Z. Non avevo mai visto uno stadio così fatiscente, con i gradoni in terra battuta da cui si staccavano dei pezzi, così dal nulla. Anche le reti di recinzione sembravano quelle di un pollaio, non di uno stadio che ospitava la finale di Coppa dei Campioni". “A un certo punto – continua –, dall’altra parte rispetto a dove ci trovavamo noi, abbiamo visto crollare quel muro… Ma di notizie non ne avevamo”.
Qui sopra, Enzo Gorgone, 65 anni, tifosissimo juventino
“Abbiamo capito che qualcosa non andava – aggiunge – quando abbiamo sentito l’annuncio di capitan Scirea dall’altoparlante. Gli ultrà volevano scavalcare e vendicarsi. Noi non capivamo molto, era tutto così confuso. L’espressione di un fotografo da bordocampo fu piuttosto eloquente, destò preoccupazione. Solo però una volta saliti sul pullman per il ritorno abbiamo saputo la verità”. “Non avrebbero dovuto giocarla quella partita - racconta - ma furono le autorità ad obbligare le due squadre a scendere in campo. Novanta minuti surreali”. “Una volta fuori dallo stadio – aggiunge -, senza cellulari e internet, provammo ad avvertire casa ma senza successo”. “Mia mamma e la mia futura moglie erano preoccupate per le notizie che sentivano alla televisione. Provarono anche a chiamare negli alberghi ma senza ottenere nulla. Solo la mattina seguente - conclude Enzo -, un mio amico che rientrò prima perché in aereo, riuscì finalmente ad avvisare i miei familiari: “Li ho visti salire sul pullman”, disse per rassicurarle”. Una storia come tante quella di Enzo ma che riaffiora ogni anno quando si avvicina il 29 maggio. Una storia dolorosa: “Tutti gli anni vado alla cerimonia per ricordare quelle 39 vittime”. Morte ingiustamente per una partita di pallone".
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