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In Italia licenziarsi non è più un segreto, boom di dimissioni, anche a tempo indeterminato

Le grandi dimissioni in Italia: un cambiamento culturale che mette il benessere personale al centro del mondo del lavoro, tra scelte consapevoli e sfide per le imprese

In Italia licenziarsi non è più un segreto, boom di dimissioni, anche a tempo indeterminato

Una sola cassa aperta su quattro in un grande magazzino, clienti in fila da mezz’ora, e un cartello che recita: “Scusate, ieri si sono dimessi in tre. Domani ci saranno i colloqui”. Una scena ormai tutt’altro che rara, sintomo evidente di un’Italia in cui licenziarsi non è più un’eccezione, ma quasi una consuetudine.

Il fenomeno delle “Grandi dimissioni” – esploso in tutto il mondo dopo il Covid – in Italia non accenna a scomparire. I dati parlano chiaro: secondo le elaborazioni della Fondazione studi consulenti del lavoro su dati Inps, nel 2024 oltre 1,2 milioni di lavoratori a tempo indeterminato si sono dimessi volontariamente. Una lieve flessione rispetto al 2023, ma comunque numeri elevati che mostrano come questo comportamento sia diventato ormai strutturale.

Un tempo si cercava il “posto fisso”, oggi si cerca una vita migliore. È un passaggio culturale che ha radici profonde, come spiega Rosario De Luca, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro: “Non è un segnale negativo, anzi. I giovani oggi difendono il proprio benessere. Prima si entrava in un’azienda e ci si restava fino alla pensione. Ora non è più così. Non torneremo indietro”.

Le nuove generazioni mettono al primo posto la conciliazione tra vita e lavoro, il benessere psicologico, e condizioni ambientali e organizzative sostenibili. Cambiare azienda non è più un salto nel buio, ma una scelta consapevole per migliorare la qualità della vita. Non si cambia solo per guadagnare di più, ma anche per avere più tempo libero, per trovare parcheggio più facilmente, per ricevere benefit come una polizza sanitaria o lo smart working.

A cambiare non sono solo i lavoratori, ma anche il mercato del lavoro. Secondo Marino Mazzini della Cisl di Bologna, anche in settori tradizionalmente “stabili” come la metalmeccanica o l’informatica, i lavoratori non esitano a cambiare. “Le imprese ti formano e dopo un anno e mezzo te ne vai. I giovani guardano anche alla formazione offerta, oltre allo stipendio”.

Eppure, c’è un rovescio della medaglia: solo il 10% dei lavoratori dichiara di stare bene nel proprio ambiente di lavoro. Il dato arriva dal Politecnico di Milano, che ha rilevato anche un aumento dei quiet quitter, coloro che si limitano a fare il minimo sindacale. Una condizione che impatta negativamente sulla produttività, già tra le più basse d’Europa.

Commercio e turismo sono tra i settori più colpiti, complici turni irregolari, festività lavorate e retribuzioni basse. Diego Lorenzi della Fisascat Cisl parla di una vera e propria “Grande Fuga”: “C’è chi è disposto a guadagnare meno pur di vivere meglio. Si fugge da modelli organizzativi ingestibili”. Se non cambieranno i contratti e le modalità di lavoro – con maggiore flessibilità oraria e tutele nei weekend – questa tendenza, secondo Lorenzi, è destinata a crescere.

Particolarmente delicata è la situazione della sanità pubblica. Ogni anno circa 3.000 medici ospedalieri lasciano volontariamente il Servizio Sanitario Nazionale, secondo l’Anaao Assomed. Il problema? Carichi di lavoro eccessivi, turni massacranti e mancanza di equilibrio vita-lavoro. “Non si vede, al momento, nessuna inversione di tendenza”, commenta il presidente Carlo Palermo.

Quello che fino a pochi anni fa era un gesto estremo, ora è quasi ordinario. Le dimissioni non fanno più paura. L’Italia sta vivendo una trasformazione profonda nel mondo del lavoro, dove il benessere personale è finalmente entrato a pieno titolo tra le priorità dei lavoratori.

Ciò che un tempo faceva ridere – come il Checco Zalone di Quo Vado?, simbolo del mito del posto fisso – oggi fa riflettere. Perché, forse, restare a ogni costo non è più un valore. La vera conquista è poter scegliere.

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