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libertà di stampa
20 Giugno 2025 - 15:05
In Asia centrale, dove i regimi autoritari sono la norma, il Kirghizistan si è per anni distinto come l’unica eccezione possibile: una repubblica che, tra mille contraddizioni, sembrava aver imboccato un percorso verso la democrazia. Oggi, però, quella fragile apertura rischia di richiudersi con forza.
Negli ultimi mesi, il governo del presidente Sadyr Japarov ha intensificato le pressioni contro la stampa libera e le voci critiche. L’episodio più eclatante risale a fine maggio, quando otto giornalisti della testata investigativa Kloop Media sono stati arrestati e trattenuti per ore senza poter parlare con i propri avvocati. Due di loro restano in carcere con l'accusa di “incitamento a disordini di massa”.
Kloop Media, nota per le sue inchieste su corruzione e abusi di potere, è da tempo nel mirino delle autorità. Lo scorso febbraio un tribunale della capitale Bishkek ne ha decretato la chiusura, accusandola di minare la fiducia nelle istituzioni. Da allora il sito è oscurato nel Paese, ma continua a pubblicare da piattaforme esterne.
Per le principali organizzazioni internazionali per i diritti umani, tra cui Amnesty International e Human Rights Watch, si tratta di un chiaro tentativo di intimidire e zittire il giornalismo indipendente. Una coalizione di dieci ONG ha firmato una dichiarazione congiunta per chiedere il ritiro immediato delle accuse, denunciando il crescente autoritarismo del governo kirghiso. "Le autorità stanno usando l’apparato di sicurezza per soffocare il dissenso e smantellare il giornalismo libero", ha dichiarato Marie Struthers, direttrice di Amnesty per l’Europa orientale e l’Asia centrale.
La repressione non riguarda solo Kloop Media. L’anno scorso il sito indipendente Mediazona ha documentato decine di perquisizioni e arresti tra i giornalisti di altre testate come Ait Ait Bese e Temirov Live. Alcuni sono stati condannati fino a sei anni di carcere. Persino l’avvocato difensore di alcuni di loro, Samat Matsakov, è finito in manette.
Tutto questo avviene in un Paese che fino al 2020 era considerato un caso raro nella regione: pluralismo politico, stampa relativamente libera e perfino una transizione pacifica del potere dopo le elezioni del 2011.
Ma nel 2020, con l’esplosione della terza rivolta in quindici anni e il controverso ritorno sulla scena politica di Sadyr Japarov – scarcerato durante le proteste mentre scontava una condanna per sequestro di persona – il Kirghizistan ha imboccato una svolta populista e centralizzatrice.
Da allora, il presidente ha modificato la Costituzione per rafforzare i suoi poteri, ridurre il numero di parlamentari e rimuovere il limite al mandato presidenziale. Analisti come Temur Umarov, del Carnegie Endowment, parlano di un modello “neo-autoritario” che sfrutta il consenso popolare per limitare le libertà e consolidare il potere personale.
Queste derive autoritarie mettono in difficoltà anche l’Unione europea, che proprio pochi mesi fa aveva firmato un partenariato strategico con i Paesi dell’Asia centrale, tra cui il Kirghizistan. Il primo vertice ad alto livello tra le due sponde si è tenuto nel novembre 2024, con l’obiettivo dichiarato di rafforzare i diritti umani e lo Stato di diritto.
Ma oggi, di fronte al giro di vite contro la stampa, la posizione dell’UE appare troppo prudente. Gli attivisti chiedono una presa di posizione netta da parte di Bruxelles: “I partner internazionali del Kirghizistan devono rompere il silenzio e fermare lo smantellamento del giornalismo indipendente”, si legge nella dichiarazione delle ONG.
Dopo anni di speranze democratiche e transizioni difficili, il Kirghizistan si ritrova a un nuovo bivio storico: continuare sulla strada della libertà o cedere definitivamente alla tentazione autoritaria.
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