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IL REPORTAGE
31 Luglio 2025 - 22:03
Girano in monopattino o a piedi, si chiamano tra loro con un fischio, un urlo. Rispondono al cellulare che squilla con una suoneria monofonica, come i primi apparecchi mobili. Non sono nostalgici degli anni 2000, ma spacciatori. Si fermano veloci a consegnare ai tavolini dei bar a ridosso tra ponte Mosca e corso Giulio Cesare, vicino la Moschea, pochi passi dal Duomo, dal centro città. E non si nascondono. Uno di loro gira a petto nudo, una bottiglia di vetro in mano. La tira in terra, urla. Un altro gli fa segno di avvicinarsi. Tutto alla luce del sole. Perché quella è zona loro.
E la gente lo sa, le persone che vivono o lavorano qui nei dintorni sanno come funziona. Non si chiamano “gli sbirri”, non si risponde ai giornalisti che fanno domande e se scendendo le scale di casa per buttare l’immondizia si assiste a uno scambio tra soldi e bustine di nylon azzurre, ci si fa i fatti propri. «Ci mettete in difficoltà, non chiedete... ma poi, non vedete?». Sì, vediamo. Guai a tirare su una fotocamera, un cellulare. Occhi e testa bassa, camminare, velocemente, Oltre quel ponte Mosca dove, sotto, una marea di corpi vivi seppur fatti di morte staziona ore, strafatti. «E oggi sono pochi, con il movimento che c’è stato ieri... saranno arrabbiatissimi, oggi non “lavorano”, troppa gente».
Il giorno dopo l’assassinio di corso Giulio Cesare, ci sono ancora i guanti usati poche ore prima dalla polizia scientifica in terra. Sono lì, a una manciata di centimetri dalla chiazza di sangue, scuro, secco. Le macchine ci passano sopra, come se non ci fosse, è solo una macchia sull’asfalto. Quattro coltellate, tutte tra l’alto addome e il basso ventre. Poi, l’assassino si è dato alla fuga e lui, la vittima, è rimasto lì in terra, gli occhi socchiusi e le treccine nere dei suoi capelli a coprire parte del viso. A nulla sono serviti i soccorsi. È morto appena arrivato al pronto soccorso del Giovanni Bosco. Si è consumato tutto mentre il cielo non era ancora buio, con le televisioni accese. Mentre la gente cenava, lui moriva sotto un palazzo che non è il suo.
Si chiamava Courage Amadin. Avrebbe compiuto 31 anni tra poco più di un mese. Nato in Nigeria, era a Torino da diversi anni. Documenti in regola, una compagna, Anita, incinta. Una figlia di tre anni. E dietro al ritratto della vittima di omicidio di mercoledì sera, un retroscena legato alla droga. Perché il nome di Courage le forze dell’ordine lo conoscevano. Era stato arrestato lo scorso dicembre, aveva con sé 33 dosi di stupefacente. «Mi servono i soldi. Ne ho bisogno» aveva spiegato. Amadin spacciava da 2 anni. Perché i lavori saltuari che riusciva a trovare non bastavano per arrivare a fine mese, aveva spiegato. E infatti, a casa sua, non c’era mai. Una palazzina in zona Parella, nella piccola via Passo del Brennero.
E i suoi vicini, sentiti: «la casa è in vendita, da cosa ne sappiamo, loro, lui e la famiglia, erano sotto sfratto». Poche ore dopo l’assassinio di Courage la sua compagna è davanti alla Questura ma non vuole saperne di parlare con nessuno che non sia un poliziotto «lasciatemi stare». Un’amica la sorregge «è scossa». Certamente lo è.
L’uomo che ha ucciso il 30enne, all’orario in cui il giornale va in stampa, è ancora a piede libero. La Squadra Mobile di Torino sta lavorando alla cattura. Nel quartiere dello spaccio, teatro dell’omicidio, quell’assassino lo conoscono. «Anche Courage lo conosceva. Hanno iniziato a litigare sul ponte Mosca e poi l’altro ha tirato fuori un coltello». Una lama lunga, un’arma che non è ancora stata trovata. La discussione si è accesa «bisticciavano per la droga. E poi l’ha ammazzato»
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