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seconda guerra mondiale

Era il 15 agosto 1945 quando il Giappone si arrese, ma la voce dell’imperatore fu un enigma

Il discorso arcaico di Hirohito e il fallito golpe militare: così finì (di fatto) la Seconda guerra mondiale

Era il 15 agosto 1945 quando il Giappone si arrese, ma la voce dell’imperatore fu un enigma

Il 15 agosto del 1945, alle 12:00 ora giapponese, l’imperatore Hirohito annunciò via radio la resa incondizionata del Giappone agli Alleati, segnando la fine effettiva della Seconda guerra mondiale nel Pacifico. Una data storica, anche se la firma ufficiale della resa arrivò solo il 2 settembre, sulla USS Missouri, nella baia di Tokyo.
Il discorso, durato circa quattro minuti, è passato alla storia come gyokuon-hōsō, ovvero “Trasmissione della voce dell’imperatore” – “voce del Gioiello”. Fu la prima volta che un imperatore giapponese si rivolse direttamente alla popolazione, rompendo un silenzio millenario. Eppure, la maggior parte dei cittadini non capì cosa stesse accadendo.

Hirohito parlò con tono sommesso, usando un giapponese classico e desueto, tipico dei proclami imperiali. Evitò parole come “resa” o “sconfitta” e si espresse in termini vaghi: disse che «la guerra non si è evoluta necessariamente a favore del Giappone» e invocò la necessità di «sopportare l’insopportabile e tollerare l’intollerabile», frase divenuta poi idiomatica. La scarsa qualità dell’audio, unita al linguaggio arcaico, rese necessario chiarire il significato del messaggio con successive comunicazioni ufficiali. Il discorso era stato registrato nella notte del 14 agosto negli studi della radio NHK, con Hirohito in alta uniforme militare. Secondo lo storico John Toland, fu usato lo stesso microfono con cui, nel 1941, era stato annunciato l’attacco a Pearl Harbor. La prima registrazione fu scartata per alcuni errori e il messaggio fu inciso una seconda volta.

Non tutti volevano arrendersi. Quella notte, il tenente Kenji Hatanaka tentò un colpo di stato: occupò il palazzo imperiale e inviò drappelli nelle principali stazioni radio nel tentativo di impedire la trasmissione del messaggio. Ma il tentativo fallì: Hatanaka e i suoi uomini non avevano appoggi tra le alte gerarchie militari e vennero rapidamente neutralizzati. Il gesto di Hatanaka rifletteva il pensiero di una parte significativa dell’esercito giapponese, permeato dall’ideologia militarista e da un’interpretazione estrema del bushido, l’antico codice dei samurai. In questo contesto erano stati teorizzati suicidi di massa per evitare la “vergogna” della resa, e infatti alcuni militari si suicidarono nella notte tra 14 e 15, ma il discorso dell’imperatore, con l’ordine di deporre le armi, contribuì a prevenire tragedie maggiori.

Negli Stati Uniti, la notizia fu annunciata dal presidente Harry S. Truman già il 14 agosto, a causa del fuso orario. Le città si riempirono di celebrazioni spontanee e i giornali titolarono la fine della guerra. Il New York Times scrisse: «Il Giappone si arrende, fine della guerra». Ma per molti soldati dell’esercito imperiale, la guerra non finì subito. In alcune isole remote del Pacifico, come le Filippine, le truppe continuarono a combattere per mesi. Alcuni soldati non credettero alla resa e rimasero nascosti per anni. Il caso più famoso è quello di Hiroo Onoda, che depose le armi solo nel 1974, quasi trent’anni dopo la fine del conflitto.

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