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Il fatto
05 Settembre 2025 - 17:05
Massimo D'Alema
C’è qualcosa di teneramente grottesco – se non fosse tragico – nel vedere Massimo D’Alema, ex presidente del Consiglio, ex uomo forte della sinistra, ex tutto, infilato in mezzo al club dei peggiori autocrati del pianeta come un pensionato che non riesce a rinunciare al circolo bocciofilo. Sul palco delle autorità a Pechino, ospite d’onore, tra Xi Jinping, Vladimir Putin, Alexander Lukashenko, Kim Jong-Un, il generale birmano Min Aung Hlaing, l’iraniano Masoud Pezeshkian: la lista di un casting che neppure Hollywood, nella più kitsch delle distopie, avrebbe avuto il coraggio di concepire. Eppure eccolo lì, sorridente come a un pranzo di partito, a sancire con la sua presenza che il vizio del comunismo non passa, non invecchia, ma anzi si aggrava con la senilità. A confermarlo non servono analisti geopolitici né trattati di relazioni internazionali: basta Carlo Calenda, con la sua indignazione da manuale, a mettere in riga la questione – «è grave che un ex presidente del Consiglio vada a Pechino per celebrare la nascita del fronte antioccidentale, a omaggiare Putin e Kim Jong-Un e Xi Jinping». Punto, fine, applausi.
Lui, che un tempo giganteggiava nei salotti tv con l’aria da moloch austero, si ritrova oggi come comparsa di lusso in un tableau vivant dell’anti-occidente. Non più leader di governo, non più stratega, ma mascotte nostalgica: il compagno che i cinesi rispolverano come reliquia d’altri tempi, quello che fa folklore tra le uniformi e le medaglie. Una foto, una stretta di mano, un brindisi con gli autocrati, ed ecco che D’Alema diventa il testimonial inconsapevole del peggior franchising politico possibile: il comunismo vintage mescolato con le autocrazie digitali.
C’è da domandarsi se sia calcolo o pura vanità. Perché l’ex premier non ignora certo il peso delle immagini: sa che quel palco non è neutro, che ogni gesto diventa dichiarazione. E allora la risposta è semplice: a D’Alema non interessa. Forse per lui, il mito del comunismo internazionale è ancora più vivo della reputazione in patria. Forse la convinzione è che un brindisi con Xi valga più di mille critiche da parte dei moderati italiani. Forse è semplicemente il piacere infantile di dire: «Vedete? Io sono ancora qui, con i grandi». Che a rappresentare l’Italia, seppure ufficiosamente, ci sia un ex premier sul palco dei dittatori del mondo, è questione che va oltre il colore della cronaca. È un insulto alla memoria di chi ha creduto nella democrazia, nell’europeismo, nell’appartenenza atlantica. Perché quando un uomo che ha guidato il governo italiano si mette a fare da comparsa in una sfilata che celebra la forza del fronte antioccidentale, non c’è più ironia che tenga: diventa un nemico dell’Occidente, anche se vestito di abiti sartoriali. E se l’argomento è che “ognuno da pensionato fa ciò che vuole”, la replica è che gli ex presidenti del Consiglio non sono “ognuno”: portano sulle spalle il peso di un passato istituzionale che non si lava con le comparsate internazionali. D’Alema non è un pensionato qualsiasi al torneo di briscola; è il volto che finisce sui giornali accanto a Putin e Kim Jong-Un. E questo, che lo voglia o no, ricade sull’Italia.
Ci sono vizi che invecchiando si attenuano, e altri che diventano caricatura. Per D’Alema il comunismo è rimasto un tic nervoso, un riflesso condizionato. Nonostante il crollo del Muro di Berlino, le purghe interne, i cambi di sigla, la metamorfosi dei partiti, lui resta fedele all’idea che il vero prestigio stia sempre “dall’altra parte”, in quella fascinazione per il blocco che fu, oggi riciclato in versione autoritaria. È come se il tempo si fosse fermato. Come se i valori occidentali fossero una parentesi fastidiosa da sopportare, mentre il cuore batte ancora per le parate militari e i sorrisi diplomatici sotto le bandiere rosse. Non un errore, ma una scelta ostinata: il vezzo di sentirsi diverso, superiore, estraneo a quel mondo occidentale che pure gli ha permesso carriera e potere.
Il problema non è che Massimo D’Alema abbia deciso di passare il suo tempo libero tra dittatori e autocrati: il problema è che lo fa ancora portandosi dietro l’aura dell’ex premier italiano. In quell’aura c’è un simbolo, c’è un messaggio, c’è un peso che non si cancella con l’età. Ed è un messaggio chiaro: l’Italia non è al riparo dai suoi stessi fantasmi.
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