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L'editoriale

L’università italiana nell’era del conformismo morale

Dal caso Scaraffia al dilagare del wokismo accademico: quando il pensiero libero diventa un rischio professionale

L’università italiana nell’era del conformismo morale

Lucetta Scaraffia

Nel mondo accademico italiano si sta consumando, in silenzio e con apparente compostezza, una delle più gravi crisi culturali degli ultimi decenni. Le università, culle del pensiero critico e del pluralismo, stanno progressivamente cedendo a un conformismo morale che non ha nulla a che vedere con la libertà accademica. L’ultimo episodio - le dimissioni di Lucetta Scaraffia dalla commissione etica dell’Università Ca’ Foscari di Venezia - non è un fatto isolato, ma un segnale di allarme che risuona in un sistema sempre più piegato al pensiero unico. Scaraffia ha lasciato l’incarico dopo la decisione dell’ateneo di sospendere ogni rapporto con istituzioni e docenti israeliani, salvo che questi non dimostrino di non appoggiare la politica del governo Netanyahu. Una clausola che pare uscita da un manuale di inquisizione ideologica. Non si giudicano più le ricerche, le competenze, la qualità del lavoro scientifico, ma la purezza delle convinzioni politiche. E in questo cortocircuito morale si consuma la fine della libertà di pensiero: chi non si allinea, chi non pronuncia le parole giuste, diventa sospetto. Il caso veneziano non è un’anomalia. A Firenze, una docente è stata duramente contestata per posizioni non conformi al clima pro-palestinese dei collettivi universitari; a Genova, il rettore ha dovuto denunciare episodi di intimidazione ai danni di studenti e professori non allineati.

L’università italiana - che un tempo vantava figure capaci di sfidare i dogmi e fondare nuovi paradigmi - sembra oggi ansiosa di imitare il modello delle Ivy League americane, dove il “wokismo” è diventato religione civile. In nome dell’inclusione, si esclude. In nome della giustizia, si giudica. Ma il cuore del problema è più profondo: si sta smarrendo l’idea stessa di verità come ricerca, sostituita da quella di verità come adesione. Chi osa dissentire viene trattato come un eretico. La dialettica è ridotta a slogan, la complessità a morale d’ordinanza. Così l’università, da laboratorio del pensiero, si trasforma in tribunale ideologico, dove la condanna non arriva per errore metodologico, ma per “offesa ai valori”. Il gesto di Lucetta Scaraffia è dunque un atto di resistenza civile. È la riaffermazione di un principio che dovrebbe essere ovvio ma non lo è più: l’università non deve educare alla militanza, ma al dubbio. L’intellettuale non deve dimostrare la propria purezza, ma la propria onestà intellettuale. Quando il sapere diventa un test di ortodossia politica, il sapere muore. E se la libertà accademica cede alla paura di essere etichettati, allora non resta che la menzogna dell’unanimità. Le università, che dovrebbero essere il presidio del pensiero critico, stanno diventando il luogo dove la libertà viene educatamente archiviata. Servirà il coraggio di molti Scaraffia per restituire alla parola “etica” il suo vero significato: difendere la verità anche quando è scomoda, e la libertà anche quando fa paura.

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