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CRONACA GIUDIZIARIA
11 Ottobre 2025 - 06:00
Un uomo seduto in aula, volto teso, sguardo che cerca di trattenere i ricordi più duri: Marco ha raccontato la sua storia davanti al Tribunale di Ivrea — collegio presieduto dalla dottoressa Stefania Cugge, con i giudici Edoardo Scanavino e Marianna Tiseo a latere — aprendo uno squarcio su una forma di violenza domestica raramente raccontata: quella subita dagli uomini. Marco e Gaia, originaria di Settimo Torinese, si erano incontrati vent’anni fa, giovani e innamorati. I primi anni insieme erano stati normali, con alti e bassi tipici di ogni relazione. Poi, con la nascita dei figli e l’acquisto di una casa sulla collina Chivassese, la stabilità promessa si è lentamente trasformata in una gabbia. Il cambiamento è stato graduale, quasi impercettibile all’inizio: insulti, sospetti infondati, epiteti laceranti, piccole umiliazioni quotidiane. Poi, giorno dopo giorno, i gesti hanno preso il sopravvento, diventando più aggressivi e pericolosi. Marco ha descritto in aula episodi di violenza concreta e sistematica, che hanno segnato la sua vita e quella dei figli. Notte dopo notte, racconta, si trovava a vivere situazioni al limite della realtà: la compagna lo raggiungeva in piena notte in roulotte presso il distributore di benzina di cui era titolare, convinta di un tradimento inesistente, lanciando posacenere contro i finestrini e distruggendo il gabbiotto del tabaccaio. In casa, le aggressioni diventavano quotidiane: porte sfondate, spinte giù per le scale, ferri da stiro scagliati, colpi e morsi, cucchiai puntati alla gola davanti ai figli, come se nulla fosse. Decine di episodi che, messi in fila, descrivono una prevaricazione costante, sistematica e crudele. Perfino umiliazioni surreali e degradanti — come la foto di feci inviata con la frase «oggi mangiati questa» — evidenziano la strategia psicologica della dominazione e dell’umiliazione continua.Per Marco, la difficoltà più grande è stata ottenere credito e sostegno. «Quando l’ho detto ai miei genitori — ha raccontato in aula — mi vergognavo. Pensavo che mi avrebbero preso per un pazzo. Non sapevo come dirlo: come si spiega a mamma e papà che prendi uno schiaffo dalla donna che ami?» Servizi sociali distratti, colleghi increduli e il peso degli stereotipi sulla mascolinità hanno contribuito a isolarlo, a soffocare ogni possibile richiesta di aiuto e a mantenere il silenzio per anni.
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