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11 Ottobre 2025 - 05:50
Quando la Norvegia ha pronunciato il suo nome, il mondo ha riscoperto una parola dimenticata: coraggio. Maria Corina Machado, ingegnere, fondatrice del movimento Vente Venezuela, è la vincitrice del Premio Nobel per la Pace 2025. Un riconoscimento che non celebra un traguardo, ma una lotta ancora in corso: quella per liberare il Venezuela dal sinistro regime di Nicolás Maduro, ultimo erede di un potere nato nel nome del popolo e degenerato nella repressione e nella fame.
Da anni Machado vive tra intimidazioni, arresti di collaboratori, censure, e violenze. Non un simbolo teorico della democrazia, ma una donna reale che ha scelto di sfidare un sistema di potere che ha cancellato la libertà di stampa, distrutto l’economia e trasformato lo Stato in una infernale macchina di controllo.Il regime di Maduro non tollera il dissenso. Lo neutralizza. Lo perseguita. E lo colpisce con metodi che ricordano le peggiori dittature comuniste: carcerazioni arbitrarie, torture, sparizioni forzate e processi farsa. A eseguire l’ordine non è solo la polizia politica, ma i colectivos: gruppi paramilitari nati come milizie popolari del socialismo bolivariano, oggi diventati bande di scherani armati al servizio diretto del potere. In moto per le strade di Caracas con motociclette nere e volti coperti, sono il braccio violento del regime.Le loro missioni sono semplici: intimidire, picchiare, sparare, uccidere.Chi protesta, chi scrive, chi parla viene “visitato” dai colectivos. È il linguaggio della paura, quello che Maduro usa per mantenere un Paese in ostaggio. Maria Corina Machado è sopravvissuta a tutto questo. È stata espulsa dal Parlamento nel 2014, privata del diritto di candidarsi alla presidenza per quindici anni, perseguitata dai tribunali e costretta a vivere in clandestinità. Ma non ha mai smesso di parlare. Quando i suoi comizi venivano interrotti dai colectivos, lei restava. Quando i suoi sostenitori venivano arrestati, lei chiedeva altri nomi.In un Paese dove la fame è diventata strumento di controllo sociale, la sua voce è rimasta un’arma politica.
Il Nobel, in questo contesto, non è un premio diplomatico. È un atto d’accusa.La Commissione di Oslo ha scelto di rompere la neutralità e dire che il Venezuela non è solo una crisi, ma una dittatura. Ha premiato una donna che non chiede vendetta, ma giustizia. Che chiede elezioni vere, libertà per i prigionieri politici, e fine delle torture.E lo ha fatto sapendo che ogni parola può costarle la vita. In un’intervista rilasciata poche ore dopo l’annuncio, Machado ha dedicato il premio “al popolo venezuelano che non ha smesso di credere nella democrazia” e ha ringraziato apertamente Donald Trump “per il sostegno dato alla causa della libertà in Venezuela”. Parole che non sorprendono: anche la politica internazionale, spesso pronta a chiudere gli occhi di fronte ai regimi amici, deve fare i conti con questa verità. C’è chi ha osservato che, per paradosso, anche Trump avrebbe potuto meritare un Nobel per i tentativi di mediazione in Medio Oriente. Ma la scelta della commissione ha un valore simbolico preciso: in un’epoca di leader che costruiscono consenso con la forza, il premio va a chi resiste alla forza per difendere la libertà. Maria Corina Machado non è solo un volto dell’opposizione venezuelana: è una testimone vivente della violenza di Stato. È una figura che smentisce il fatalismo delle dittature e ricorda che la libertà non si implora, si conquista.Il Nobel per la Pace 2025 restituisce al mondo un principio elementare e dimenticato: la democrazia non è un bene naturale, ma una conquista quotidiana. E a volte, per difenderla, serve il coraggio di una sola persona
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