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Cronaca internazionale
20 Maggio 2025 - 08:30
Nonostante l’offensiva tariffaria avviata da Donald Trump contro le esportazioni cinesi, Pechino ha mostrato una tenuta inattesa. La risposta del governo di Xi Jinping è stata il risultato di un lungo processo di preparazione e rafforzamento dell’autosufficienza economica, avviato fin dal primo mandato del tycoon americano. Mentre Washington riduce progressivamente le aliquote tariffarie sui beni cinesi – dal picco del 145% all’attuale 30% – e abbassa i dazi sui piccoli pacchi sotto gli 800 dollari di valore dal 120% al 54%, la Cina può permettersi di non cedere. Il motivo è strutturale: oggi l’economia del Dragone è meno dipendente dal mercato statunitense rispetto al passato.
Quando, lo scorso 2 aprile, l’ex presidente Trump ha annunciato nuovi dazi del 34% sui prodotti cinesi, Pechino ha risposto colpo su colpo, senza mai invocare un tavolo negoziale. Un atteggiamento che riflette la fiducia di un sistema economico che si è gradualmente sganciato dalla centralità americana. Secondo l’Asian Nikkei Review, tra il 2018 e il 2024 le esportazioni cinesi verso Paesi diversi dagli Stati Uniti sono aumentate di oltre 1 trilione di dollari – il doppio del valore annuale delle esportazioni verso Washington.
Un esempio concreto arriva dal settore agroalimentare: la Cina ha ridotto sensibilmente le importazioni alimentari dagli Usa, diversificando i fornitori di soia (inclusi Brasile e altre economie emergenti) e investendo nello sviluppo di tecnologie agricole in Asia centrale. Parallelamente, Pechino ha avviato una profonda trasformazione della propria struttura industriale, con l’obiettivo di rafforzare l’autonomia tecnologica e scientifica, anche in vista di possibili embarghi su tecnologie avanzate.
Nella lunga partita dei dazi, la Cina ha un vantaggio chiave: l’assenza di scadenze elettorali. Mentre negli Stati Uniti i cicli politici – come le elezioni di midterm previste per il 2026 – impongono pressioni costanti sull’amministrazione, Xi Jinping può agire con maggiore flessibilità. Una guerra commerciale, per quanto gravosa, diventa quindi più sostenibile sul lungo periodo per Pechino, specie se confrontata con le esigenze del mercato americano in vista della stagione dello shopping natalizio. Un altro punto di forza della Cina è il controllo pressoché totale delle terre rare, indispensabili per l’industria high-tech e militare. Oggi Pechino copre circa il 70% della produzione globale di questi materiali e ne controlla il 90% della raffinazione. Un’arma strategica silenziosa che limita i margini di manovra di Washington.
Nel frattempo, però, il peso dei dazi si fa sentire sull’industria cinese. Se computer e smartphone – i due settori principali dell’export verso gli Usa – sono esentati dalle tariffe, molte altre produzioni stanno già cercando sbocchi altrove. La delocalizzazione industriale è iniziata e con essa il rischio di instabilità occupazionale interna. Al netto delle strategie, una certezza resta: la guerra dei dazi ha un costo crescente per entrambe le superpotenze. E se Xi può contare su una pianificazione di lungo periodo, gli effetti collaterali – dalla chiusura delle piccole imprese alla disoccupazione – potrebbero indebolire anche l’equilibrio cinese.
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