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sostenibilità
24 Giugno 2025 - 09:45
Di fronte a una cassetta di pomodori al supermercato, nessuno si ferma a riflettere su quanto quel prezzo rifletta o tradisca la realtà agricola italiana. Dietro ogni chilo di pomodori ci sono mani che li raccolgono, semi scelti con cura, trattamenti agricoli, imballaggi, trasporti e trattative opache. Ma soprattutto ci sono persone: agricoltori, braccianti, intermediari.
Non esiste una risposta univoca, ma la domanda resta fondamentale. Perché dietro a quel prezzo – che in media oscilla tra 1 e 3 euro nei supermercati – si celano ingiustizie sistemiche e squilibri di potere che plasmano l’intero settore agricolo. Se si guarda alla sola coltivazione, questa incide in media solo per il 15% del prezzo finale. Il resto? Trasporto, distribuzione e, soprattutto, margini della grande distribuzione organizzata (GDO).
Le operazioni agricole – come la legatura, la potatura e la raccolta – vengono fatte tutte a mano. Le difficoltà aumentano quando si aggiungono gli effetti del clima, i rincari post-pandemia, l’instabilità del mercato. Ma nonostante tutto, il prezzo sui banchi cambia poco. Gli agricoltori faticano a coprire i costi e il guadagno è residuale.
Accanto alla filiera del fresco, esiste inevitabilmente quella dell’industria: pomodori destinati a diventare sughi e passate. La raccolta è meccanizzata, i terreni più estesi, i ritmi più serrati. Anche qui, i margini sono minimi. Nel 2025, il prezzo minimo è stato fissato a 14 centesimi al chilo. Molto meno del prezzo di una tazzina di caffè.
Le aziende agricole, spesso familiari e frammentate, difficilmente riescono a contrattare con forza. E chi si rifiuta di vendere a certi prezzi, spesso resta fuori dal mercato. In compenso, cresce la pressione a tagliare sui costi, a partire dalla manodopera.
I supermercati giocano un ruolo determinante. Attraverso la GDO, i pomodori vengono acquistati a prezzi molto inferiori rispetto al loro valore reale. Spesso si impongono ribassi settimanali, che i produttori subiscono pur di mantenere le commesse. È il meccanismo del sottocosto, che garantisce promozioni ai consumatori ma alimenta una spirale di svalutazione della filiera agricola.
Fino a pochi anni fa, erano persino in uso aste al ribasso online, in cui i produttori si sfidavano offrendo la merce a prezzi sempre più bassi. Ora vietate, ma le dinamiche non sono cambiate granché. Il valore si è spostato dalla qualità del prodotto all’efficienza della vendita.
La parte più oscura della filiera emerge nei campi, soprattutto nel Sud Italia. Secondo stime della CGIL, circa 230mila braccianti lavorano in condizioni di sfruttamento, spesso stranieri, senza contratti regolari, senza sicurezza, senza diritti. In aree come Foggia, Ragusa, Gioia Tauro o l’Agro pontino, il lavoro nero e il caporalato sono ancora diffusi.
Il caporalato non è solo una piaga sociale, ma spesso anche la punta dell’iceberg di infiltrazioni mafiose, riciclaggio e distorsioni nei mercati ortofrutticoli. Eppure, i tentativi istituzionali di contrasto restano deboli: la Rete del lavoro agricolo di qualità, istituita nel 2016 per premiare le aziende virtuose, ha raccolto solo 9.000 adesioni su oltre un milione di aziende agricole italiane.
Ma anche i consumatori possono fare la loro parte. Come?
Quel chilo di pomodori che acquistiamo con distrazione e fretta ha un valore che va ben oltre il suo prezzo. Racconta di territori, di fatica, di ingiustizie ma anche di possibilità. Pagare qualcosa in più può sembrare poco, ma è un passo concreto verso un cambiamento necessario.
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