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INTERVISTA DELLA SETTIMANA

Salone del libro, Ferrero: «La politica ora ascolti. Giordano era la scelta migliore»

Parla l'ex direttore della kermesse libraria di Torino

Salone del libro, Ferrero: «La politica ora ascolti. Giordano era la scelta migliore»

Da Gorbaciov a Bono degli U2. Al Salone del Libro di Ernesto Ferrero sono passati proprio tutti. Il più grande rammarico? «Non essere riuscito a ospitare Philip Roth. Persona amabilissima, oltreché grande scrittore» racconta e ripercorre con piacere gli anni alla guida della kermesse libraria. Non si sottrae neppure quando gli viene fatta la domanda delle cento pistole: chi sarà il nuovo direttore?
Ferrero, un’altra edizione senza pace per il Salone? Ma perché non si riesce mai a essere tranquilli?
«Non capisco perché si siano create così tante complicazioni. Era un caso talmente lineare. La soluzione era ovvia».
Cosa intende?
«Voglio dire che nel momento in cui hai uno scrittore come Paolo Giordano che ti dichiara la sua disponibilità, l’unica cosa da fare è procurarsi un tappeto rosso e stenderlo il più in fretta possibile. È uno dei più importanti scrittori italiani, tradotto in tutto il mondo, ha appena pubblicato un romanzo epocale come Tasmania e un altro importante sul Covid. Cosa si vuole di più?»
Qualcuno dubitava che avesse le capacità manageriali necessarie per guidare una macchina complessa come il Salone...
«Quando sono stato direttore nel 1998 nessuno mi ha chiesto capacità manageriali. Così come non sono state richieste a Nicola Lagioia. Tutto quello che deve fare un direttore è elaborare un programma il più possibile attraente e innovativo, con le risorse che gli vengono assegnate. Io avevo un budget sui 60mila euro per coprire le spese di ospitalità degli autori invitati».
E bastava?
«Me lo facevo bastate. Anche se è una cifra inferiore a quello che qualsiasi comune spende per una sagra di paese. Fortunatamente, potevamo contare sulla grande collaborazione e disponibilità degli editori».
Cos’altro serve a un direttore?
«Deve saper lavorare in gruppo, essere empatico, inclusivo e avere capacità di relazione. Non dubito che Paolo Giordano avrebbe saputo esserlo».
Venuta meno l’ipotesi Giordano, ha già un altro nome in mente?
«Nomi non vorrei farne per non bruciarli. Il problema non sta nei nomi. I nomi li deve indicare chi fa materialmente il Salone, e dunque sa di cosa c’è bisogno».
Lei, da fuori, chi pensa abbia sbagliato fin qui?
«Sbaglia chi si ritiene in dovere di dover piantare le sue bandierine. È il vecchio problema di una politica che deve farci sapere che decide lei, che ambisce a essere protagonista e a orientare le scelte, magari senza averne le competenze. Nel nostro caso, la società di Silvio Viale e chi poi il Salone lo costruisce tutti i giorni, dico Marco Pautasso, Andrea Gregorio e Mario Giulia Brizio, hanno l’esperienza per indicare un bravo direttore. I piloti di Formula 1 non li scelgono i politici. Le istituzioni dovrebbero semplicemente facilitare l’operatività di chi realizza il Salone. O almeno, così dovrebbe accadere in un paese civile».
Anni fa, in piena conferenza stampa, asfaltò Beppe Grillo suggerendogli di cercare altri lidi per fare comizi elettorali.
(sorride) «In quella occasione mi sono un po’ lasciato trascinare da un gusto della polemica che peraltro non mi appartiene. Ma continuo a pensare che un personaggio come Grillo sia poco adatto al Salone del Libro, che è un luogo di dibattito e discussione. Non è un posto per monologhi. I comizi, chiunque li faccia, si possono fare altrove».
La politica ha sempre cercato di “mettere becco” sul Salone. Lei, per tanti anni direttore, come ha resistito? Ha mai avuto pressioni?
«Al massimo erano inviti molto garbati a ospitare questo o quello. Ho sempre avuto la massima libertà di scelte. E poi i rapporti istituzionali erano gestiti benissimo da un politico esperto e capace come Rolando Picchioni, che ha gestito benissimo una situazione estremamente complicata».
Crede che qualcuno abbia peccato di inriconoscenza nei confronti di Picchioni?
«È stato oggetto di una indagine giudiziaria a mio avviso infondata e vittima di un vergognoso linciaggio mediatico. Non mi ha mai sfiorato il cervello l’idea che potesse utilizzare soldi pubblici, che tra l’altro mancavano sempre, ad altro scopo che non fosse quello di fare il Salone al meglio. Semmai è stato eroico, sempre alle prese con istituzioni che versavano i contributi stabiliti con ritardi di anni. Gli dovrebbero fare un monumento equestre».
Parliamo di Lagioia. L’ha scelto lei, no?
«No, ho solo segnalato il suo profilo a chi doveva scegliere. Adesso capisco che dopo tanti anni abbia voglia di fare altre esperienze, invece gli tocca l’ennesima supplenza, un po’ come Mattarella, fatte le debite proporzioni. Siamo il Paese dei rinvii».
Come potrebbe il Salone crescere di più? Si può pensare a una sorta di scambio con altre realtà estere? La Fiera di Londra, quella di Lagos...
«Metterei bene a fuoco quel c’è, senza cercare troppi ingrandimenti. Spesso le imprese che vogliono crescere troppo finiscono per scoppiare. Gestire un successo non è facile. Il programma degli eventi, ad esempio, deve essere seduttivo, ma non deve catalizzare tutta l’attenzione del pubblico, che altrimenti trascura di visitare gli stand. Serve equilibrio, come sempre».


C’è un autore che rimpiange di non aver portato al Salone?
«Sicuramente Philip Roth. Lo avevo conosciuto quando lui venne a Torino per incontrare Primo Levi. Ricordo di averli portati a cena al Cambio, fu una serata memorabile. Con noi c’era anche Claire Bloom, la moglie di Roth. Lui si diceva che aveva un carattere po’ ispido e invece si è rivelato essere un uomo di straordinaria simpatia, di quelli che senti subito fraterno. Peccato che negli ultimi anni non volesse più muoversi da New York, ma lo capisco».
Un ospite che porta nel cuore invece ?
«Forse il ricordo più bello è legato alla serata speciale che anni fa abbiamo dedicato al Carignano a quella poetessa meravigliosa che era, ed è, Wislawa Szymborska, uno degli autori da rileggere tutti i giorni. O il pianista Alfred Brendel, per il qual ho un’autentica venerazione, che ha anche scritto libri molto belli, molto viennesi»
Come vede la letteratura di oggi? Il suo ultimo libro è una specie di album di famiglia dell’editoria italiana, in particolare l’officina Einaudi. Adesso, le case editrici pensano troppo al mercato?
«Le case editrici devono fare i conti con il mercato, non sono mica dei mecenati o dei filantropi. L’editore è un ibrido: un imprenditore che deve far quadrare i conti ma ha le sue passioni culturali. Il vero editore non va a rimorchio dei gusti del mercato, deve anticipare e rivelare al lettore delle esigenze che lui stesso non sapeva di avere. Giulio Einaudi era così».
Ci sono giovani scrittori che le piacciono?
«Tra i primi che mi vengono in mente, oltre a Giordano, ci sono Domenico Starnone, Melania Mazzucco, Antonio Franchini, Donatella Di Pietrantonio».
Che consiglio darebbe a chi si approccia al mondo della scrittura? Servono le scuole e i master?
«La cosa migliore è leggersi per bene tutti i grandi classici del’Otto e Novecento, e cercare di capire come fanno. Le scuole insegnano uno stile medio, da sceneggiato tv, invece ognuno deve sviluppare una voce propria, unica e inconfondibile».
E lei, che libro ha sul comodino?
«Le mie letture in questo periodo sono mirate a un ritratto di Calvino cui sto lavorando. Lo sto rileggendo tutto. Credevo di conoscerlo abbastanza bene, ma più scavi e più trovi».
Che cosa ha trovato?
«Soprattutto negli ultimi anni la sua vertiginosa capacità logica e deduttiva di analizzare le cose sempre più nel profondo, di creare una mappa dell’esistente. Lo fa con una intensità che dà le vertigini. Ho paragonato la sua scrittura a un albero i cui rami continuano a biforcarsi e biforcarsi... Lui era uno che davvero navigava nell’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande».
È questo il talento?
«Il talento è una dote naturale. O ce l’hai o no, ma come ogni cosa deve essere coltivato e perfezionato. Impari solo se lavori con costanza, rigore, umiltà. Come fanno i pianisti, i violinisti, i ciabattini o i falegnami».



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