C’è chi dice che, alle volte, il 5 di giugno qualcuno lasci una rosa sul prato non distante dalla Cascina Spiotta, nel Monferrato, ma chi vive da queste parti storce la bocca, «leggende», quell’alone di forzato romanticismo su una stagione di sangue da cui il nostro Paese, che troppi misteri ha lasciato dietro, non riesce a riemergere. Il 5 di giugno del 1975 il tenente dei carabinieri Umberto Rocca, genovese trentacinquenne e padre di famiglia, arriva alla cascina assieme al maresciallo Rosario Cattafi e all’appuntato Giovanni D’Alfonso. Il brigadiere Pietro Barberis della procura resta vicino alla Fiat 127 poco più sotto. I militari controllano le due auto parcheggiate vicino alla cascina mentre il tenente nota, al piano di sopra, una donna spiare da una tendina. I carabinieri sono impegnati in rastrellamenti del territorio: il giorno prima l’industriale dello spumante Vittorio Vallarino Gancia, 42 anni, è stato rapito poco lontano, da finti operai stradali che hanno fermato la sua Alfetta. Ma né il tenente né gli altri possono immaginare che il rapito sia proprio in quel casolare. Sulla porta compare un giovane, senza baffi, l’aria perplessa. La donna resta a guardare dal piano di sopra. All’improvviso arriva l’urlo del maresciallo, il tenente fa appena in tempo ad alzare il braccio per difendersi: l’uomo sulla porta ha lanciato una granata. L’esplosione porta via il braccio e un occhio al tenente, ma la storia racconta che l’ufficiale sia rimasto cosciente e abbia messo la mano alla pistola, iniziando a sparare. Il maresciallo Cattafi, ferito da numerose schegge, fa fuoco a sua volta, come l’appuntato D’Alfonso, che viene però raggiunto da diversi colpi di pistola esplosi dal giovane e dalla donna. I due brigatisti tentano di fuggire lungo la strada, ma la Fiat 127 e il brigadiere Forneris li bloccano: volano proiettili, il brigatista più giovane lancia un’altra granata, la donna si accascia a terra, colpita a morte. In pochi istanti la «battaglia dell’Arzello» è finita: il maresciallo porta in ospedale il tenente con l’auto di un postino, l’appuntato D’Alfonso viene ricoverato in coma, un coma da cui non si sveglierà più. Nella casa, gli altri militari trovano Vallarino Gancia, legato in una stanza. Al giornalista Giorgio Bocca, anni dopo, Renato Curcio avrebbe poi raccontato che lui, quella mattina, era ad Acqui Terme, a comprare del cibo. Il fondatore delle BR, arrestato assieme ad Alberto Franceschini a un passaggio a livello di Pinerolo, l’anno prima, in una operazione coordinata da un giovane Gian Carlo Caselli, è latitante da febbraio, da quando Mara Cagol, sua moglie, ha dato l’assalto al carcere di Casale Monferrato per farlo fuggire. E lui, ad Acqui, da una radiolina, sente della sparatoria e della ragazza con le scarpe di corda rimasta priva di vita sul terreno. Sale in auto e ritorna di corsa a Milano. E qui, nel loro covo, sulla macchina da scrivere oggi sotto esame, il brigatista misterioso scriverà la relazione completa - con tanto di disegnini - di quanto accaduto alla cascina e anche prima: dell’idea della “colonna torinese” guidata dalla stessa Cagol di rapire Gancia per autofinanziarsi - la richiesta di riscatto era di un miliardo -, dell’errore che ha impedito di veder arrivare i carabinieri, di aver sottovalutato l’arresto di Massimo Maraschi, il giorno prima, in seguito a un banale incidente stradale. Ma la sua identità resta un mistero. Umberto Rocca, rimasto nell’Arma nonostante le mutilazioni - si è congedato come generale ed è stato direttore del Museo dei Carabinieri -, sosteneva di aver riconosciuto il giovane brigatista fuggito quando fu arrestato nel 1978: anche uno dei suoi uomini era convinto di chi fosse, ma non volle dire nulla nel timore di rappresaglie. L’allora capitano, invece, si sentì dire dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che la sua testimonianza non sarebbe stata sufficiente. Chi era, dunque, quell’uomo? Uno del commando che rapì Aldo Moro facendo strage della sua scorta, come sostengono alcune fonti, indicando alle volte Lauro Azzolini o Franco Bonisoli - entrambi coinvolti nella gambizzazione di Indro Montanelli -, oppure un giovane mai identificato? Forse qualcuno della colonna torinese o di quel lungo elenco di fiancheggiatori e “simpatizzanti”? O c’entra quell’infiltrato, un uomo dei servizi segreti, che qualcuno giura essere stato presente alla Spiotta? La stanza dei segreti si riapre per l’ennesima volta, con gli stessi nomi che si riaffacciano, a cominciare da Patrizio Peci, il primo pentito, cui per vendetta uccisero il fratello. Un romanzo infinito, i cui personaggi non sono ancora stati svelati tutti.
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