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IL BORGHESE
25 Settembre 2023 - 06:30
Disordini al Cpr di Torino, attualmente chiuso dopo la devastazione delle ultime rivolte
Quando si tratta di affrontare qualcosa di delicato, in Italia, spunta un acronimo che quasi sempre porta male. E’ così per il Pnrr, pure difficile da pronunciare. Ed è stato così, fin dall’origine, per i centri con cui si è pensato di risolvere la questione dell’immigrazione. Quando vennero introdotti, ormai 25 anni fa, li chiamarono Cpt, centri di permanenza temporanea, con una sottolineatura della provvisorietà insita nell’ultima lettera quantomai necessaria - allora - per ragioni giuridiche, ma anche politiche.
In punta di diritto, quelli che i detrattori definirono gabbie per stranieri, strideva (e stride tuttora), con la nostra Costituzione, che non prevede una forma di detenzione per una violazione amministrativa come quella di aver varcato una frontiera senza avere i documenti in regola. Politicamente, poi, l’invenzione di queste che a tutti gli effetti sarebbero diventate prigioni (seppure temporanee) per clandestini, creava qualche problema agli inventori. Che furono Livia Turco e Giorgio Napolitano, esponenti di una sinistra che mostrando il pugno duro con i migranti rischiava di perdere voti. L’acronimo, come ricordava bene il presidente della Repubblica che si è spento venerdì, non servì a placare le polemiche.
Ma i Cpt, da quel momento, divennero uno dei capisaldi (se non l’unico punto fermo) delle politiche sull’immigrazione dei governi a venire, a prescindere dal colore. Diventati Cie e oggi Cpr, 25 anni dopo restano quel che sono sempre stati. Luoghi a metà, gli unici in cui, andando un pelino oltre ciò che prevede la nostra Carta, è ammessa la detenzione (anche se non la chiamano così) per una violazione amministrativa e non penale. Strutture che nell’immaginario collettivo cambiano colore a seconda di dove tira il vento. Crudeli, quando qualche straniero vi si impicca e muore.
Ma necessari, quando ciclicamente si torna a parlare di immigrazione come di una emergenza. Perché - secondo lo slogan su cui hanno basato la propria sopravvivenza per un quarto di secolo nonostante le rivolte, le tragedie e le inchieste - servono a “riportare al loro paese” gli stranieri “in eccesso” o ritenuti socialmente pericolosi. Ma è davvero così. A guardare i numeri, gli unici che non mentono, si direbbe di no. O almeno, soltanto in (minima) parte.
L’unica cosa certa, dal 1998 a oggi che tornano al centro del dibattito e vengono presentati come soluzione a tutti i mali, è che i Cpt-Cie-Cpr o come li chiameranno nel nuovo acronimo che sicuramente verrà coniato a breve, sono assai costosi. E servono a ben poco, se si guarda allo scopo che si prefiggono, dato che sono pochissimi gli stranieri ristretti che poi vengono effettivamente espulsi. Basta guardare i dati del Brunelleschi, il centro torinese, che per anni ha raccolto clandestini provenienti da molte città italiane, fino alla primavera scorsa, quando le rivolte violente all’interno, consumate con il sostegno anarchico che non è mai mancato da fuori, l’hanno ridotto in cenere. Ebbene, secondo quanto riportato nell’ultima relazione al Parlamento del garante nazionale dei detenuti che ha analizzato i dodici mesi del 2021, le persone effettivamente rimpatriate sono state appena 142 su 776 transitate, ossia il 18,3% del totale. E gli altri? Una parte sono usciti dopo aver tentato il suicidio, qualcuno per averne messo in scena uno. I più perché manca l’accordo con i Paesi di origine o comunque la macchina burocratica non è riuscita a organizzare il viaggio prima della scadenza dei termini. In ogni caso, (quasi) tutti fuori. Dopo un periodo di permanenza assai lungo: 46,7 giorni in media. Meno rispetto a Nuoro (73,5) e Brindisi (51,2), ma parecchi di più se si guarda a Caltanissetta (14,5) Trapani (15,8), Bari (29,5), Potenza (22,7) o Milano (35,3).
Guardare la permanenza media, quando si parla di Cpr, è assai importante. Perché da questa, alla fine, dipende il costo sostenuto dallo Stato, visto che gli appalti per la gestione vengono assegnati sulla base di cifre pro capite/pro die e saldate alla presentazione dei rendiconti.
Il 10 febbraio scorso, dopo la gestione dei francesi di Gepsa succeduti alla Croce Rossa, l’appalto del Cpr Brunelleschi è stato aggiudicato con riserva a Ors Italia srl, ramo italiano della svizzera Ors Service Ag, acronimo di “Organisation for Refugee Services”, tra le società leader nel campo dell’assistenza ai migranti da oltre 30 anni. Tra Svizzera, Austria, Germania e Italia gestisce oltre 100 strutture e occupa 1.400 collaboratori. E a Torino ha vinto la gara proponendo un costo del servizio pro capite al giorno di 37,97 euro, cui andavano aggiunti 133.5 euro a immigrato come kit di ingresso.
Il totale è presto fatto: con un fabbisogno teorico che la prefettura, quando lanciò il bando, stimava in 144 posti, sono circa due milioni di euro l’anno. Dunque, con una percentuale di espulsioni uguale a quella dell’ultimo anno di attività, 1.600.000 euro, sono andati semplicemente sprecati. E a parlare di Cpr come strumento inefficace e costoso al fine dei rimpatri è anche il garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo, che per sostenere la propria tesi snocciola una serie di dati più recenti: «Nel 2022, delle 879 persone transitate al Cpr di Torino (199 provenienti dal carcere e 680 entrate da libere) solo 279, vale a dire una su quattro, sono state rimpatriate. Le restanti sono state rilasciate per diversi motivi, dalla scadenza dei termini di trattenimento a ragioni sanitarie o per la mancata convalida da parte del giudice».
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