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IL BORGHESE
27 Settembre 2024 - 05:50
Sono sempre più numerosi i giovani che lasciano l’Italia per i Paesi esteri
Negli ultimi due anni oltre 100mila giovani tra i 18 e il 35 anni si sono trasferiti all’estero, due su tre avevano in tasca una laurea conseguita in Italia o un diploma rilasciato da una scuola professionale. Un esercito in fuga. Ed è proprio questa fuga di cervelli che mette in luce il sintomo più grave del male che affligge il sistema del nostro Paese, incapace secondo molti ricercatori di trattenerli nonostante il rischio che questo fenomeno ci porti verso il declino. Ancora più oggi che la crisi industriale, specie in Piemonte e in regioni del nord e del Meridione, taglia non solo i lavoratori, ma anche i quadri e i dirigenti offrendo poche possibilità ai giovani emergenti. Un’emergenza che tuttavia non è solo di oggi.
È sufficiente consultare i dati pubblicati dalla Fondazione del Nord Est per scoprire che negli ultimi dodici anni, dal 2011 al 2023 le cancellazioni anagrafiche per l’estero sono state 550mila, compensate solo in parte da 170 mila rientri, con un saldo negativo di 375 mila persone. Dati che devono far riflettere sia per il peso dei numeri (pari agli abitanti di una grande città), ma soprattutto per l’aumento percentuale che si verifica anno dopo anno. Con alcune spiacevoli certezze: chi va negli Stati Uniti per completare un ciclo di studi raramente rientra in Italia anche se il Paese e le loro famiglie hanno sostenuto il costo dell’educazione scolastica dalle elementari alla laurea.
Ma non solo: richiamati da stipendi più corposi ora fuggono i giovanissimi diplomati negli istituti professionali per i quali si conta un rientro dall’estero possibile solo nel 30% dei casi.
Perdiamo quasi silenziosamente i nostri figli migliori. E li perdiamo soprattutto nel Nord industriale ove vi sono anche le Università più prestigiose. Prendendo in esame ancora il periodo 2011-2023 sono il Nord Ovest con la fuga di 100mila laureati e diplomati e il Nord Est con 80 mila a pagare il prezzo maggiore, a dispetto di chi immaginava fosse il Sud a soffrire di più. L’emorragia di professionisti o comunque di persone con un alto livello di istruzione e di preparazione scientifica, non è un fatto recentissimo. Ma il fenomeno è emerso solo intorno agli anni ‘70/80, numeri alla mano.
A peggiorare le cose verso la fine degli anni ‘90 si è fatta un po’ di confusione nel valutare a pieno i rischi del cosiddetto brain exchange, ossia il flusso di risorse intellettuali e lavorative tra un paese e l’altro che inizialmente sembravano equilibrate nei due sensi, ma poi lentamente si sono sbilanciate a nostro danno. Come dire che il percorso virtuoso della circolazione dei cervelli per un periodo di formazione e di avviamento alla carriera in cui ci si sposta all’estero per completare gli studi e perfezionarsi con un primo e magari un secondo lavoro ma alla fine si torna in Patria, è andato smarrendosi. E i cervelli sono rimasti là, per almeno due motivi: retribuzioni migliori e migliori possibilità di fare carriera, anche grazie ai benefit aziendali sostenuti da finanziamenti statali. Per i ricercatori che studiano il fenomeno in cui l’Italia è fortemente coinvolta, si tratta, brutalmente di “esportazione di capitale intellettuale” che non è solo una perdita di persone di valore, ma anche di perdita del denaro speso per formarle. Insomma una scommessa persa perché le innovazioni prodotte all’estero dai cervelli in fuga sono proprietà dei Paesi in cui sono state realizzate da cui l’Italia dovrà in qualche modo ricomprarle. Il combinato disposta porta, secondo chi si occupa dei cervelli in fuga, al timore che da tempo l’Italia sia un Pese avviato verso il declino.
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