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Il Borghese

Sotto il vestito... il caporalato. Ecco perché i "cinesi" ora siamo noi

Loro Piana dopo Armani e altri big: così l'industria della moda italiana massimizza i profitti (con il lavoro nero)

Sotto il vestito... il caporalato. Ecco perché i "cinesi" ora siamo noi

Giorgio Armani, Alviero Martini, Dior, Valentino e adesso Loro Piana. Sembra una sfilata di moda invece è (quasi) un mattinale di polizia giudiziaria. Sono le griffe dell’alta moda italiana che, nell’ultimo anno, sono incappate in guai giudiziari legati all’accusa di caporalato. Cosa succede nel mondo della moda italiana?

L’ultimo caso è di ieri e riguarda la biellese Loro Piana, nome simbolo dei maglifici nostrani, che da tempo è nella galassia del colosso del lusso Lvmh (ossia Louis Vuitton & C) dei miliardari francesi Arnault. La Loro Piana è finita in amministrazione giudiziaria controllata per una serie di subappalti irregolari.

Questa la catena: Arnault commercializza giacche di cachemire a 3.000 euro firmate Loro Piana, “progettate” a Biella, ma poi date in produzione all’esterno. In questo caso anche ad aziende prive di dipendenti o macchinari che a loro volta subappaltavano a “sartorie” di cinesi e immigrati spesso irregolari, comunque in nero. Il costo del singolo capo? Cento euro.

E il copione pare lo stesso delle borse confezionate in laboratori clandestini per la Armani Bags, o per la Alviero Martini. Sotto il vestito niente, si diceva anni fa; dentro la borsa, la schiavitù. Quel caporalato che non riguarda solo l’edilizia o l’agricoltura, ma anche la catena del lusso, quella che brandizza ma non produce: nella migliore delle ipotesi, il Big “prototipizza” il vestito, la giacca, la scarpa, ma poi ha necessità di una produzione massiva in quanto l’esclusività è stata sostituita dalla necessità di una maggiore diffusione, dell’aumento delle vendite, anche tramite brand correlati “entry level”. L’unico scopo è massimizzare i profitti. E si riducono le spese al minimo, così come, evidentemente, i controlli delle subforniture.

Si temeva che i cinesi soppiantassero, con le loro viscose al posto delle sete, la qualità Made in Italy. La situazione è invertita: quasi tutte le aziende cinesi di Prato (il famoso distretto tessile finito sotto accusa negli anni) ora sono italiane. E gli italiani fanno i cinesi.

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