l'editoriale
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05 Agosto 2021 - 08:43
Vivere serve solo a morire. Magari è così, polvere eri e polvere tornerai, e via discorrendo. E nella polvere resterai, anche. “Nella polvere” (Adelphi, 20 euro, traduzione di Mariagrazia Gini) è il titolo del romanzo di Lawrence Osborne, curioso tipo di scrittore giramondo, nato in Inghilterra, vissuto a Parigi, autore di reportage, ora stabilitosi a Bangkok. Uno che del suo paese ha una idea che viene molto bene da come tratteggia due dei protagonisti del romanzo, David e Jo, lui medico alcolista e con più di una grana giudiziaria alle spalle, lei scrittrice per bambini che non scrive più niente da anni. Decadenza, arroganza del censo, noia. La noia che ti porta ad attraversare anche mezzo Marocco per arrivare lì, nell’ex villaggio fortificato divenuto un po’ buen retiro e un po’ suk, dove Richard e Mally, l’uno inglese e l’altro americano, organizzano feste dionisiache e sfarzose, cui nessuno pare voler dimenticare. Ma sulla strada, nella polvere, David e Jo investono e uccidono Driss, un giovane del luogo che apparentemente voleva vendere loro dei fossili.
Ecco, la storia vera e propria, lasciando perdere la pur brillante descrizione della festa colonial-decadente che dura giorni interi (anche mentre il corpo senza vita giace nel garage), deve partire da qui. Da David. Perché il titolo originale del romanzo è “The forgiven”, ossia “Il perdonato” (che è poi anche il titolo del film con Ralph Fiennes realizzato qualche anno fa). David con le sue colpe manifeste, anche se la polizia corruttibile si limita ad allargare le braccia, e magari con quelle sottese, quelle che Jo conosce e che paiono far capolino qua e là da parole, gesti, anche nel marasma dei festanti tra tiri di marijuana, di cocaina, alcolici, tartine e disprezzo da parte dei camerieri locali?
David deve essere perdonato o punito? Il padre del ragazzo morto pretende che lo segua nel deserto, nel luogo dove avrà sepoltura il giovane. Un viaggio rivelatore, se vogliamo. Ma bisogna essere attenti al senso delle parole.
Nel frattempo, viaggiamo anche noi: nella storia di Driss, della sua traversata per arrivare prima in Spagna e poi in Europa, della bontà incontrata e del sangue lasciato dietro di sé. Anche lui deve essere perdonato o giudicato?
Nel frattempo, Jo finisce tra le braccia di Day, un americano che potrebbe essere il classico giornalista amico di gente che conta, il testimone di questo moderno Falò delle vanità, o una specie di Nick Carraway del Grande Gatsby, ma senza arrivare a quella grandezza. Perché diciamolo chiaramente: a Osborne piace tratteggiare personaggi cialtroni, non ce n’è uno che non abbia qualche tratto fastidioso o qualche colpa. Quanto al raggio verde, beh quello forse lo vede soltanto David, quando più che perdonato è colui che si è perdonato da sé, o autoassolto. Ma il destino, polveroso deve ancora arrivare.
È una epica lenta quella del linguaggio di Osbrone, affascinante come una danza di cui si conosca poco. E danzano i suoi personaggi, non solo nella festa senza fine, ma anche nel viaggio nel deserto, nei rituali della fossa, nel movimento lento di un coltello da combattimento che sbuccia due mele. E circolarmente si torna dove si è iniziato, nella polvere di una strada in cui avanza e poi si ferma una vecchia Camry con due inglesi a bordo, due che non sono più gli stessi. O forse erano questi fin dall’inizio. E ciò che avviene è dannatamente logico.
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