l'editoriale
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26 Agosto 2021 - 08:32
C’è qualcosa di straniante in questo romanzo, “Il pugile ragazzo” (La nave di Teseo, 19 euro) del chirurgo plastico e autore Pier Luigi Amato. La sua Roma, dichiarata anni 70, assomiglia in maniera così smaccata a quella di oggi nello stesso modo in cui una adolescenza di quaranta e più anni fa somiglia a quella del decennio successivo e di quello dopo ancora. Si ha la sensazione che i tempi non quadrino, talmente appare tutto attuale, moderno. C’è la festa della scuola, con la ragazza («la più carina, la più cretina, cretino tu» e scusate se viene istintivo citare Antonello Venditti) che affitta un locale per ballare, che fa noleggiare addirittura dei bus navetta perché possano partecipare tutti (ma quanti soldi ha questa famiglia? Sembra davvero più una roba da Roma bene anni zero), anche quelli che abitano nelle periferie. Come Andrea, per cui un pullman solo non basta per arrivare nell’Urbe. Cui non basta neppure la boxe per trovare uno spazio, una espressione. E, per un po’, potrebbe non bastare neppure l’amicizia con Jasper.
Jasper sì che si fa bastare la boxe: a lui piace, per lui è disciplina, è arte, è espressione. Una sera in auto deve scansare le avance del suo allenatore (“Maestro” sarebbe il termine giusto da usare nella boxe, non coach), ma senza rabbia, ché quella maturerà dopo: cambia palestra, cerca di convincere anche Andrea a farlo, sospettando che quel ragazzo più delicato e apparentemente fragile di lui possa aver subìto di peggio. Ed eccola la rabbia dei sedici anni. La stessa che Jasper prova di fronte alla scuola dove, a giorni alterni, c’è il picchetto dei comunisti o quello dei fascisti e lui non vuole scegliere da che parte stare, lui esercita il diritto di non stare all’angolo, alle corde. Ma i pugni li dovrà far andare, eccome se li dovrà far andare.
Ma è l’estate dei sedici anni. Ci sono le gazzose al bar, le ripetizioni di matematica, le fughe al mare, il viaggio in Grecia, c’è un motorino giallo che è qualcosa di più di due ruote. Ci sarà la lunga distanza, il silenzio, perché a sedici anni nulla è più definitivo di ciò che è provvisorio, fragile. Saltabeccando nel tempo, alla fine Amata tratteggia una storia fragile e rabbiosa al tempo tempo stesso, che vuole essere universale per quanto possibile.
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