l'editoriale
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19 Gennaio 2023 - 08:37
Il baro non è un criminale e neppure un imbroglione vero e proprio, è piuttosto un artista. E questo libro è una sorta di educazione sentimentale del perfetto baro, «per coloro che ancora sanno apprezzare la schiettezza». “Memorie di un baro” (Adelphi, 13 euro, traduzione di Davide Tortorella) è l’unica prova narrativa lunga di Sacha Guitry (1885-1957), attore e autore teatrale di gran successo, considerato in Francia un po’ l’erede di Feydeau. Uno che ha barato con il destino fin dall’inizio, viene da dire: a cominciare da quando racconta che di solito a tavola, nella sua famiglia, erano in dodici. Un giorno, per un piccolo furto, lui venne punito e quindi niente cena, niente assaggio di quei funghi raccolti «dal sordomuto». Risultato: a tavola c’erano undici cadaveri!
Inizia così la sua storia quasi da Oliwer Twist francese, cresciuto in casa di un patrigno e una matrigna «meschini e cattivi» da cui un bel giorno deciderà di fuggire facendo diversi mestieri, prima in un ristorante di provincia, poi fattorino in un grand hotel di un posto di vacanza, quindi in uno di Parigi: «Tutte le città hanno un cuore.... ma il cuore di Parigi ognuno lo mette dove gli pare», spiega in una pagina sulla vita della Ville lumière di fine Ottocento. Lui ha le idee chiare, a cominciare dal valore del denaro: «essere ricchi non è avere soldi: è spenderli... se volete una banconota vi renda i 5 franchi del suo titolo dovete spenderla, altrimenti è solo un pezzo di carta». E al suo ideale di vita resterà fedele, a cominciare da quando si trasferisce nel principato di Monaco, dove resterà 18 anni, dal 1899 al 1917, dopo aver denunciato un gruppo di rivoluzionari russi che lo avevano contattato per organizzare un attentato allo Zar Nicola II.
A Monaco diventa croupier e perde la verginità con una ricca contessa cinquantenne, conosciuta ai tavoli da gioco, a poi si sposa con Henriette Gertrude Bled per entrare in società con lei e barare truffando il casinò, che lo scopre e lo licenzia.
Comincia così una carriera di baro solitario, con curiose pagine sui vari sistemi per cercare di vincere. «Ci saranno mestieri più belli, ce ne saranno anche di più lucrosi, chi lo nega? ma di più divertenti no, non ne conosco.... Barare significa intralciare i progetti del caso».
Ed è proprio il caso, che non si fa ostacolare da nulla, a fargli rincontrare Charbonnier, l’uomo che gli salvò la vita durante la grande guerra e gli attacca la febbre del vero gioco, per cui «quando si è giocatori, giocatori sul serio, non si può barare: non ci si può sostituire al caso». Ed è così che perde tutto, si rovina, costretto a tornare a una misera vita normale da impiegato.
In appendice un saggio di Edgardo Framzosini, “La leggerezza del megalomane”, su Sacha Guitry: «Una carriera piena di successi, una vita da nababbo. Il piacere irresistibile dell’ostentazione. Un ego smisurato», cosa che di conseguenza lo porta a dire: «sono uno di quegli uomini cui non viene mai perdonato nulla».
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