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Ecco Angelo Brofferio, poeta, politico e spirito libero del Risorgimento

Brofferio

La sua statua, solitaria e fiera, orna il perimetro dei giardini della Cittadella. Così solitaria che pochi la degnano di uno sguardo. E, a ben vedere, oggi chi si ricorda di lui, di Angelo Brofferio? Peccato, perché egli fu una delle anime più originali del Risorgimento, un tribuno istrionico e multiforme che nella sua vita fece davvero un po’ di tutto. Nato a Castelnuovo Calcea nel 1802 (sotto Napoleone!) Brofferio visse una gioventù nella quale il francese era la lingua ufficiale e le idee della Rivoluzione erano le uniche ammesse (ma doverosamente interpretate dal regime bonapartista). Nell’animo del giovane Angelo, già incline alle belle cose dell’arte e del teatro, gli energici ideali della Révolution ebbero un effetto dirompente. E, zitto zitto, non appena ritornò la monarchia egli aderì alle più estreme frange dell’opposizione, vale a dire quelle sètte di stampo massonico che nel corso della Restaurazione erano sorte come funghi qui e là. Più le bandivano, e più esse fiorivano.

Nel 1831 Brofferio visitò da molto vicino le prigioni della questura e tradì i suoi vecchi compagni di setta, i cosiddetti Cavalieri della Libertà. In sostanza: si trattava di un gruppuscolo di squinternati. D’altronde, come dirà anni dopo il nostro, comunismo e socialismo erano in Torino “due bestie curiose come l’ippopotamo e la giraffa”. I settari non erano comunisti, ma poco ci mancava... I Cavalieri erano davvero quattro gatti, e la prova ne è che il tradimento di Brofferio non generò alcuna persecuzione nei confronti dei componenti della setta: ci andò di mezzo soltanto tal Giuseppe Bersani, un dipendente del Ministero della Guerra che, per la sua posizione particolare, venne ospitato per un certo periodo nell’hotel di Fenestrelle. Hotel, come tutti ben sappiamo, che godeva di pessime recensioni.

Questa delazione ha dato origine a una delle più accese querelle risorgimentali. Insomma: perché Brofferio tradì i suoi compagni? Per anni, gli storici del Risorgimento, abituati a tratteggiare eroici e irrealistici personaggi tutti vòlti a nobili ideali, si sono interrogati sul voltafaccia di Brofferio non riuscendo a capirlo. Ma cosa c’era poi da capire? Anche oggi, i paladini della rivoluzione militante non vivono di ideali ma sono tutti a libro paga. Brofferio, semplicemente, aveva annusato che la politica si fa in altro modo. E così, riappacificato con i questurini, continuò a militare nelle sue battaglie anticlericali e progressiste, ma sempre andando a braccetto con il potere. Smise le pagliacciate (come quella davanti a re Carlo Felice, sceneggiata di gioventù) e divenne un protagonista della vera vita politica. Prima, come giornalista (collaborò con il giornale Il messaggiere torinese) e poi come deputato al parlamento subalpino, a partire dal 1848. In politica portò avanti nobili battaglie, prendendo ad esempio le difese dello sventurato e innocente generale Girolamo Ramorino, accusato di essere il responsabile della disfatta di Novara e per questo fucilato in piazza d’Armi.

Fieramente anti-cavouriano, perorò affinché il Piemonte non entrasse nella Guerra di Crimea. Soprattutto, i torinesi lo ricordarono per la sua appassionata opposizione al trasferimento della capitale a Firenze: si interessò per ottenere giustizia dei morti ammazzati dagli allievi carabinieri e dall’esercito in piazza Castello e in piazza San Carlo il 21-22 settembre 1864 e proclamò pubblicamente il suo sdegno per l’insabbiamento delle indagini sulle “giornate di sangue”. Si occupò di libertà di stampa, di espressione, di religione. Religione! Si oppose sempre tenacemente a Cavour, ma il suo nemico principale fu la destra clericale: egli il papa proprio non poteva digerirlo. Da bravo anticlericale, auspicava la fine del potere temporale dei papi, ma la sfortuna volle che non poté vedere la fine dello Stato della Chiesa: egli premorì all’ingresso dei piemontesi a Roma, spegnendosi in un paesino sul lago di Locarno, Minusio, nel 1866.

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