l'editoriale
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15 Febbraio 2023 - 08:07
La prima chiamata arriva appena indossata la divisa, quando non sono neanche le 8 del mattino. La sirena si accende per non spegnersi più per tutto il giorno: una corsa dietro l’altra per soccorrere feriti, con l’ambulanza che si fa largo fra le auto che affollano le strade di Torino. Ecco come funziona la giornata di medici, infermieri e autisti che lavorano per il 118, il sistema che gestisce il soccorso sanitario d’emergenza. Tra città e provincia ci sono centinaia di volontari e dipendenti delle diverse organizzazioni di volontariato (le Croci), che dedicano il loro tempo a soccorrere chi sta male, curandoli in casa o portandoli negli ospedali. Per capire come funziona, basta una mattinata con Davide, Simona, Tania e Marcello, equipaggio dell’ambulanza medicalizzata del 118 convenzionata con la Croce verde di Villastellone: sono medico, infermiera e due dipendenti cui toccano le emergenze più gravi della zona Nord di Torino, quelle che hanno bisogno dell’intervento immediato di un medico: «Ma, se non ci sono altre ambulanze disponibili, andiamo anche a Sud» sorride Tania. Basta che squilli il telefono per farli scattare tutti: «Il nostro tempo di reazione dev’essere velocissimo: le informazioni ci arrivano direttamente sul tablet dalla centrale operativa. Poi, nel giro di tre minuti, infiliamo una giacca, impostiamo il navigatore e siamo in strada». Così questi quattro eroi del soccorso passano le giornate praticamente senza fermarsi o ritornare alla base di via Porpora, a due passi dal Giovanni Bosco: «È importantissimo creare un feeling nell’equipaggio, anche perché lavoriamo almeno 12 ore insieme per un totale di 40 a settimana».
La mattinata comincia già alle 7.30, dal soccorso di una signora allettata di 93 anni, che non rispondeva più alla badante: dopo la chiamata al numero unico 112, l’ambulanza è corsa a soccorrere l’anziana. Probabilmente aveva avuto un ictus e i sanitari l’hanno stabilizzata e portata in ospedale.
Cambio scena: “assicurata” l’anziana in pronto soccorso, il telefono suona di nuovo e la sirena dell’ambulanza si riaccende subito per partire a 100 all’ora verso corso Regio Parco. Una signora aveva dolore a una spalla ed è stata curata in casa. Il tempo di risalire a bordo e bisogna correre al Ponte Mosca. Lì, tra corso Giulio Cesare e la Dora, non ci sono anziani ma giovani stranieri e tanti spacciatori: i sanitari devono soccorrere un immigrato in overdose, caricarlo in ambulanza e trasportarlo al Giovanni Bosco. Stessa destinazione per il signor Giovanni, un anziano disorientato che si era ritrovato davanti a un bar di corso Grosseto: «Non ricordava nulla, aveva solo un foglietto in tasca con l’indirizzo di casa» raccontano i quattro soccorritori dopo la corsa in ospedale. Quando, finalmente, hanno qualche minuto per pranzare e parlare: «Il nostro non è un lavoro facile, ci sono spesso aggressioni: di recente altri due equipaggi sono stati attaccati da pazienti agitati». Colpa di una zona non facile: «L’utenza non è quella della collina: interveniamo spesso in situazione disagiate». Come il soccorso allo straniero in overdose: «Non sappiamo mai come reagiscono quando gli diamo l’antidoto: sono già successi degli attacchi. Ed è capitato che ci aprissero l’ambulanza per rubare qualcosa».
Ma, soprattutto, questi sanitari hanno spesso a che fare con la morte: «In pochi minuti dobbiamo decidere sulla vita di una persona: il carico emotivo è enorme e porta strascichi a lungo. Sarebbe importante avere un sostegno psicologico».
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