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Il collezionista folle
02 Febbraio 2025 - 07:10
la preziosa statua
PROLOGO
A Torino, tra una bancarella polverosa e una soffitta piena di improbabili cimeli, il nostro Collezionista Folle si è imbattuto in un tesoro. O almeno, così pare. La scena è epica: un uomo con gli occhi sgranati, il respiro sospeso, il cuore che accelera. Tra le mani stringe una statuina ramata, apparentemente anonima, ma con un dettaglio che gli fa tremare le ginocchia: due lettere incise nel metallo, G e A. Un brivido gli percorre la schiena. Giacometti? Alberto Giacometti? E se fosse davvero un’opera sfuggita ai radar del mercato internazionale?
L’idea lo investe con la stessa forza di un treno in corsa. Già si immagina sotto i riflettori di ChristiÈs, mentre un battitore con voce impostata annuncia: “Signori, abbiamo un’offerta di cento milioni di dollari! Centodieci! Centoventi! Venduto!”. Ma la realtà è un’altra, e l’unico suono che risuona nel suo salotto non è il gavel che decreta la sua ascesa nell’Olimpo dei ricchi collezionisti, bensì il cigolìo della sedia su cui si accascia, incredulo. Perché il nostro eroe, anziché navigare tra milioni di dollari e fiumi di champagne, resta lì, tra le mura di casa sua, a scrutare la statuina con la lente da filatelico, mentre fa la.... bohème.
Invece di una vendita record, il nostro collezionista si ritrova a fare i conti con una statua che, per adesso, non vale nemmeno una pizza al tegamino in centro. Ma non è certo questo a fermarlo: la caccia al tesoro continua, e la speranza – un po’ folle, ma necessaria – non si spegne mai.
METTIAMO GIACOMETTI
Mettila sulla libreria o come ferma porta, questa statua ramata come un vino d’annata fa la sua figura anche in centro al tavolo del salotto. Mi suscita subito una certa curiosità per l’insolita posizione se la osservo dalla parte posteriore, colta alla sprovvista trafitta dal mio sguardo, solleva le braccia come per dire: “Buon Dio, non ora, non sono ancora pronto!”. Se invece la osservo dalla parte anteriore, essa si erge come un adoratore di Akenaton nel mistero dell’antico Egitto. Non mi stanco di osservarla girando attorno al tavolo: di profilo mi meraviglia la sua forma plastica, curvilinea, come uno schiavo che non soffre di sciatica ma che, anzi, sembra aver trasportato un masso di decine di tonnellate nell’atto di spingerlo con le mani al suo posto, nella costruzione di una grande piramide.
Chiudo gli occhi per sfogliare con la sola immaginazione il volume edito dalla Fondazione Alberto Giacometti in cui, al capitolo delle sue opere simboliste, vi sono opere costruite in fili di rame, lamine e piastre. Questa mia ci starebbe molto bene, pubblicata posta su un panno verde come il piano di un biliardo, colore che contrasta e nobilita il colore ruggine del rame che brilla al raggio di luce. Mi sfugge una esclamazione di meraviglia che a taluni può essere fraintesa come un lamento, mirando alla testa ricciolina dell’uomo di rame, un particolare che ad un tempo ricorda una mente di burro, dura al freddo dell’inverno ma capace di ammorbidirsi al tepore del sole.
Cerco invano anche sotto il piedestallo dove una etichetta adesiva avrebbe rotto il silenzio sulla provenienza ed identità di questa statua leggera e simbolista posta su una base pesante che le conferisce una certa imposizione del corpo su una base di ferro ricoperto da una lamina di rame la cui composizione appare segnata da tracce d’un aratro che dissodasse un arido terreno. Segni non posti a caso, disegnati profondi con uno scopo indiziario poiché è nella terra che si semina e si scrivono messaggi augurali. Mi fermo per vedere se vi si leggano cifre, emblemi e lettere.
Nell’incrocio dei segni, acuendo il mio occhio, leggo le lettere G A, iniziali di Giacometti Alberto, ma la perizia di autenticità non basterebbe senza una controprova. Il cuore batte più forte: nella linea più sotto, larga e perpendicolare a quelle verticalizzate, vedo con una lente da filatelico il segno di una freccia che indica di leggere più sopra la lettera alfabetica G di Giacometti e, adiacente la lettera A di Alberto! Più tardi, quando si farà buio, la fotograferei col flash, al fine di ombreggiare le tracce e se, la fortuna mi facesse felice, potrebbe essere leggibile anche ad un orbo la firma dell’Artista.
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