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INTERVISTA DELLA SETTIMANA
02 Luglio 2023 - 08:35
Nicola Campogrande, compositore e direttore artistico di Mito
Ognuno di noi ha un «buco nell’anima a forma di musica classica». Un bisogno, una necessità, un desiderio inespresso di bellezza che resta lì sopito – magari anche per anni – e quando si manifesta c’è solo una cosa da fare: chiudere gli occhi e lasciarsi cullare dalle note. Parlare di musica con Nicola Campogrande lascia la sensazione che si debba mollare tutto e cominciare subito a cercare di colmare quel vuoto dell’anima. Lui che ha scelto di diventare un compositore quando era solo un bambino, all’età di 12 anni e ora ne ha fatto una professione che lo porta nei più grandi teatri del mondo non ha perso lo stupore e cerca di trasmetterlo al pubblico.
Da Parigi a Pechino, la sua musica viene eseguita nei teatri più prestigiosi. Ma Torino è la sua città natale. Com’è tornare a casa?
«Torino è la città in cui sono nato e in cui mi sono formato. Anche quando mi sono trasferito a Roma per amore, vent’anni fa, ho sempre mantenuto vivi i legami con la mia città. Non c’è mai stato un reale allontanamento. Paragono sempre Torino ad altre città che frequento. E per me resta il luogo degli affetti e della memoria. Un luogo del cuore, possiamo dire».
E poi c’è Mito che la tiene legato alla nostra città.
«La prima edizione di cui mi sono occupato è stata quella del 2016. Sono passati otto anni da allora e io ho sempre inteso il festival all’insegna della scoperta. Concepisco il mio incarico come quello di un esploratore».
Un esploratore?
«Mi spiego: se vogliamo offrire qualcosa che non si trova nella normale programmazione musicale, il gioco consiste nell’inventare. E quinti tutti i concerti di Mito sono concepiti ad hoc per il festival. Non c’è niente che si possa ascoltare altrove. In questi anni, ho fatto il conto, ho preparato 990 concerti e posso confermare che ciò che si sente a Mito, lo si sente solo qui».
Gli estimatori hanno già preso il biglietto, ma cosa direbbe a chi si approccia per la prima volta – magari anche con un certo timore – alla musica classica?
«Suggerirei di non avere paura. Mito prende il pubblico per mano e lo aiuta a capire. Abbiamo pensato apposta per tutti i concerti della rassegna una breve presentazione. Questo mette chiunque nella condizione di accogliere la musica».
Tanti pensano che la musica classica sia semplicemente troppo... difficile.
«La musica classica ti dà moltissimo, ma ti chiede anche una disponibilità. Ti chiede di stare attento, di spegnere il telefonino e di essere rispettoso dell’ambiente entro cui la musica avviene. Ti chiede di partecipare alla creazione della bellezza di quel singolo momento. Quella disponibilità alcuni la scoprono subito, molti altri la comprendono in età matura. E questo è anche il motivo per cui, normalmente, le sale da concerto sono popolate da uno zoccolo duro di persone con i capelli grigi. E non c’è niente di male, badi bene. Il vantaggio di chi scopre la musica prima è che ha più tempo per godersela. Quasi tutti però a un certo punto della loro vita si rendono conto di avere delle domande, delle necessità e dei piaceri che vengono soddisfatti dalla musica classica. Sono pochissime le persone che non reagiscono a questo tipo di esperienza quando ne hanno la possibilità».
Possiamo dire quindi che Mito offre questa possibilità?
«Mito riesce ad avvicinare alla musica persone che non l’avevano mai ascoltata e che spesso si fidelizzano. D’altra parte, se noi facessimo una ricognizione empirica scopriremmo che le sale da concerto che si costruiscono oggi continuano ad avere la stessa dimensione – o sono più grandi – delle sale del passato. E sono piene. Questo fa capire come il pubblico della musica classica sia costante. Non sta sparendo. Anzi, semmai è in aumento».
C’è una delle serate in programma a cui è particolarmente legato?
«È un po’ come chiedere a un padre a quale figlio vuole più bene. È difficile. Nessuno dei concerti è scontato o prevedibile. Penso alla serata dedicata a Paolo Conte, ad esempio, “Asti”. Si va ad ascoltare le sue canzoni ripensate in chiave di musica classica. È una formula del tutto nuova».
Con Mito la musica arriva anche in periferia.
«Sì, con un biglietto a un prezzo popolare il pubblico può scoprire grandi autori per pianoforte, ascoltando musicisti che generalmente si esibiscono nelle sale più blasonate del mondo e che, con Mito, accettano di suonare anche nelle piccole sale di periferia».
E perchè lo fanno?
«Perchè è bello incontrare un pubblico diverso. O più semplicemente: perchè è bello».
Nel preparare l’intervista ho ascoltato “R Un ritratto per pianoforte e orchestra”. Da dove viene la sua ispirazione?
«Tenga conto che, se uno fa il compositore di mestiere, l’ispirazione non è la parte più importante. La musica è un lavoro a cui io mi dedico dal lunedì al venerdì, otto ore al giorno. È fatta di idee e artigianato. La capacità di gestire l’idea e di trasformarla in un pezzo di musica fa la differenza. Detto questo, l’ispirazione per me ha fonti molto varie. R è il ritratto di una donna commissionata dal suo fidanzato, ad esempio. In quel caso è stato particolarmente stimolante avere una persona da ritrarre musicalmente. Più comunemente l’ispirazione mi viene dalla letteratura, dal cinema e dalle arti visive. Da pensieri astratti che mi si formano in mente mentre faccio una passeggiata o anche dalla lettura dei giornali. Sono tutti tasselli che fanno sì che la mia musica nasca e viva nell’oggi».
Come ha capito di voler diventare compositore?
«Ho deciso che volevo fare il compositore a 12 anni. E da allora non c’è stato un solo giorno in cui mi sono sentito libero di pensarmi diversamente».
Molto giovane. Cosa ha fatto scattare la scintilla?
«In famiglia si erano accorti che avevo una predisposizione per la musica e avevamo un vecchio pianoforte che nessuno suonava. Un pomeriggio il mio insegnante convocò mio padre e gli disse che ero portato per la musica, ma non per il pianoforte. Non era il mio strumento. Dimenticavo apposta i libri a casa. Ero terribile. Cancellavo con la gomma gli esercizi assegnati per non farli. Non mi interessava studiare la tecnica. Il maestro allora propose ai miei genitori di farmi studiare altro. E fu lì che sentii per la prima volta la parola “composizione”. Non l’avevo mai sentita prima, non venendo da una famiglia di musicisti. Capii subito che volevo scrivere la musica. E dal pomeriggio stesso iniziai a studiare come un matto. Mi si era accesa una luce».
Critico musicale, autore, insegnate. Sono tutte forme d’arte figlie di uno stesso bisogno di esprimersi?
«In fondo sono tutte declinazioni diverse del fare il compositore. La stessa costruzione del festival Mito è una attività che io faccio da compositore. Nel senso che il palinsesto, la griglia e gli incastri degli appuntamenti per me sono come pentagrammi su una partitura. Quando mi capita di scrivere un libro o quando insegno è la stessa cosa. Faccio il compositore con i piedi saldi nel mondo. Non sono chiuso nella mia torre. Ho bisogno di respirare quello che accade».
Progetti per il futuro?
«Ho deciso che avrei lasciato il festival di Mito un anno e mezzo fa. Credo che una cosa da evitare in assoluto sia la routine. Un festival di questa dimensione ha bisogno di propulsione continua. Mi sono divertito moltissimo in questi anni e ho organizzato l’ultima edizione con grande allegria. Penso sia sano per il festival - e anche per me - voltare pagina. Sono comunque molto orgoglioso di quel che è stato fatto. E ora godiamoci questa meravigliosa edizione di Mito».
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