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Novità in libreria
31 Agosto 2023 - 08:00
Si sentiva come «un fucile sparato l’ultimo colpo» Cesare Pavese nella sua ultima estate, nel 1950, scriveva nel suo diario di tracciare un bilancio «di un anno non finito e che non finirò». Nonostante il Premio Strega. In due mesi aveva scritto “La luna e i falò”, dando fondo a tutto. «Lei», ossia Costance Dowling, era tornata in America. È quindi possibile ritenere che “La luna e i falò” un cosciente addio alla vita? È possibile fornirne una interpretazione antropologica? A queste domande dà la sua risposta Piercarlo Grimaldi con “Di lune e di falò” (Rubettino, 16 euro), arrivato in libreria nei giorni dell’anniversario della morte di Pavese.
Nato a Cossano Belbo nel 1945, è stato professore ordinario di Antropologia culturale e Rettore dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Dice che «nei nostri paesi si parlava poco di Pavese, se ne vagheggiava, ma era più un pettegolezzo su una figura da esorcizzare in una Langa della miseria in cui i suicidi erano all’ordine del giorno». Ma questo romanzo è davvero tale? O Anguilla, l’orfano che torna dopo aver vissuto in America e fatto fortuna, non cerca un paese di cui riappropriarsi, qualcosa per evitare che la carne «duri solo un giro di stagione», vuole solo rimarcare che il desiderio delle origini è puro mito? Pavese che bilancia il suo essere intellettuale tramite la guida virgiliana dell’amico Pinolo Scaglione, il falegname del Salto, il Nuto de “La luna e i falò”, mentore, mediatore, contadino solco diritto che porta lo per mano a scoprire e a riscoprire i miti e i riti della Langa del Belbo.
Un viaggio doloroso, dove la cascina bruciata dall’impazzimento causato dalla miseria si sovrappone al segno del falò che ha bruciato Santina, mentre ancora echeggia la raffica di mitra che l’ha uccisa, assieme alla giovinezza.
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