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Molestie

Catcalling e paura: se la realtà virtuale può insegnare l’empatia

Uno studio in Messico mostra come la tecnologia immersiva aiuti gli uomini a comprendere davvero l’impatto delle molestie

Catcalling e paura: se la realtà virtuale può insegnare l’empatia

Mentre cammina, prende la metro, corre al parco o torna a casa di sera, una ragazza ogni tanto pensa: «speriamo di non venire stuprata». Non sa bene da quando ha iniziato a farlo. Forse da sempre. O da quando ha letto le storie di altre donne e ha pensato: “potrebbe capitare anche a me”. La scrittrice femminista Leslie Kern lo spiega con lucidità: «Crediamo che il nostro stupratore sia già là fuori che ci aspetta nell’ombra». E ci crediamo ancora di più dopo un fischio, una battuta, uno sguardo invadente.

Il catcalling, cioè le molestie verbali per strada, è una forma di violenza spesso minimizzata. C’è chi dice che dovrebbero far piacere, chi liquida tutto con il classico «non tutti gli uomini...». Eppure, secondo il primo rapporto Univ-Censis sulla sicurezza, quasi il 70% delle donne ha paura quando rientra a casa la sera. Paura vera, concreta. E gli aggressori non si riconoscono a occhio nudo.

Uno studio dell’Universidad Nacional Autónoma del Messico propone un esperimento per cambiare prospettiva, usando la realtà virtuale. Il progetto ha coinvolto 44 uomini che hanno vissuto due narrazioni diverse: una letta su carta e una immersiva, tramite video a 360° e visori. Nei filmati, girati in prima persona da una donna, i partecipanti vestivano letteralmente i suoi panni, sperimentando scene quotidiane fino all’arrivo dei commenti sessisti e delle molestie.

Il risultato? Rabbia e disgusto. Emozioni forti, misurate e riportate dai soggetti dopo l’esperienza immersiva. Emozioni che, spiegano i ricercatori, sono fondamentali per sviluppare empatia e consapevolezza. Perché solo comprendendo davvero l’effetto psicologico di un gesto o una parola si può cambiare comportamento.

Secondo lo studio, la realtà virtuale potrebbe diventare uno strumento efficace non solo in ambito educativo, ma anche clinico, per intervenire su chi ha già compiuto atti di molestia. L’obiettivo è far vivere in prima persona il disagio emotivo che provocano quelle che troppo spesso vengono ancora chiamate “avances”.

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