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Estate
02 Giugno 2025 - 12:25
C’è un momento in cui il costume piegato nella valigia diventa un oggetto minaccioso. Non per il tessuto o il colore, ma per ciò che rappresenta: lo sguardo degli altri, quello spietato che sembra misurare ogni centimetro di pelle. È qui che si manifesta una delle più diffuse distorsioni contemporanee: il dismorfismo corporeo. Un malessere che affonda le radici nella cultura visuale, nei filtri social, nella retorica dei “buoni propositi” e in quella piccola, potentissima espressione che ogni estate torna a tormentarci: la prova costume.
La chiamano così, come fosse un test da superare. Ma dietro questa espressione si nasconde una pressione pervasiva, capace di scardinare l’autostima e trasformare l’estate in un incubo. Lo sa bene chi guarda il proprio corpo con occhi distorti, vittima di una narrazione estetica ossessiva che insegna fin da piccoli a odiarsi un po’. Troppo grassi, troppo magri, mai abbastanza. Il corpo si trasforma in un nemico, e lo specchio in un giudice.
A gennaio, dopo le feste, comincia la rincorsa. Diete, allenamenti, rituali di espiazione travestiti da buone intenzioni. Ma quel che promette benessere si trasforma presto in ossessione, fino a sfociare in crolli psicofisici subdoli e lenti. Quando arriva il momento di partire, l’ansia esplode: il costume non è più un abito, ma una condanna.
Eppure, uscire da questo schema si può. L’ha fatto Vivian Hoorn, modella olandese che è passata da una taglia 38 a una plus, liberandosi dal giogo dei canoni della moda. Lo ha raccontato a Vogue Italia, mettendosi a nudo nel vero senso della parola. Ha spiegato come imparare ad accettare il proprio corpo l’abbia resa più forte, più amata, più felice. Perché la sicurezza non nasce da una misura, ma da un rapporto sano con sé stessi.
Anche la medicina lo riconosce: il disturbo da dismorfismo corporeo, secondo il Manuale MSD, è un’alterazione percettiva che può colpire chiunque, a prescindere dal peso. Le sue radici sono culturali, alimentate da immagini irraggiungibili, social network e modelli di bellezza esclusivi. Contro questi fantasmi si alzano le voci di chi, come Giulia Paganelli, usa i social per cambiare il linguaggio, a partire dalle parole. “Prova costume”, scrive, è già di per sé una trappola: suggerisce un traguardo da raggiungere, un esame da superare. Ma chi ha deciso che debba esistere?
Quel costume colorato, simbolo di vacanza e libertà, è stato trasformato in un nemico. Non per colpa sua, ma di una società che ancora crede che il valore di una persona possa dipendere da quanto è aderente al modello. La verità è un’altra, e comincia da un pensiero semplice, ripetuto come un mantra: la prova costume non esiste.
Non esiste perché il corpo non è un progetto da correggere. Non esiste perché nessuno dovrebbe sentirsi in difetto per occupare spazio nel mondo. Non esiste perché, alla fine della giornata, ciò che conta è sentirsi a proprio agio, liberi, vivi. Anche, e soprattutto, in bikini.
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