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12 Giugno 2025 - 13:40
Con un post pubblicato su Truth Social, Donald Trump ha annunciato nei giorni scorsi il “licenziamento” di Kim Sajet, direttrice della National Portrait Gallery di Washington. Una dichiarazione che non ha alcun valore giuridico, ma che si inserisce con chiarezza in una campagna culturale sempre più aggressiva da parte del presidente contro le istituzioni considerate vicine alle politiche di diversità, equità e inclusione (DEI).
Storica dell’arte di profilo internazionale, Kim Sajet è nata in Nigeria, cresciuta in Australia e cittadina olandese naturalizzata. Dirige la National Portrait Gallery dal 2013, prima donna alla guida dell’istituzione dalla sua fondazione nel 1962. La sua carriera ha spaziato tra Australia e Stati Uniti, con incarichi di vertice in musei e accademie di rilievo.
Sajet, secondo Trump, sarebbe “fortemente faziosa” e una “sostenitrice della DEI”, un orientamento ritenuto inappropriato per un ruolo di responsabilità all’interno di un museo pubblico. Ma la verità è che il presidente degli Stati Uniti non ha potere esecutivo su tali nomine: la Portrait Gallery è parte dello Smithsonian Institution, un ente autonomo la cui governance è affidata al Consiglio dei Reggenti. Le nomine e le eventuali revoche spettano esclusivamente al Segretario dello Smithsonian, non alla Casa Bianca.
L’intervento di Trump appare quindi privo di conseguenze dirette, ma altamente significativo sul piano simbolico. Rientra infatti nel quadro della sua più ampia offensiva elettorale contro le cosiddette “narrazioni divisive” promosse da parte del mondo culturale americano. Un conflitto che ha già colpito altre realtà museali come il National Museum of African American History and Culture o l’American Women’s History Museum.
Sebbene il nome di Kim Sajet non compaia nell’ordine esecutivo firmato da Trump lo scorso marzo — intitolato Restoring Truth and Sanity to American History — la sua rimozione simbolica si inserisce chiaramente nella strategia elettorale volta a contrastare le narrazioni ritenute divisive. Il provvedimento ha affidato al vicepresidente JD Vance, uno dei principali interpreti della linea culturale trumpiana, il compito di vigilare sui contenuti prodotti dallo Smithsonian Institution, con l’obiettivo dichiarato di garantire la promozione di valori americani condivisi.
Il caso Sajet si colloca in un clima di crescente polarizzazione politica attorno al ruolo dei musei pubblici. Se da un lato si chiede alle istituzioni culturali di raccontare la storia americana in tutta la sua complessità, dall’altro cresce la pressione per allineare la narrazione a una visione più conservatrice e omogenea del passato nazionale.
La minaccia oggi non si esercita solo attraverso possibili tagli ai finanziamenti, ma anche tramite pressioni indirette e delegittimazione pubblica, come nel caso dell’annuncio di Trump. La direttrice ha più volte ribadito l’importanza di un approccio rigoroso, storico e pluralista. Ma per alcuni settori della destra americana, questa impostazione rappresenta una forma di attivismo politico mascherato.
Al momento, Kim Sajet resta in carica, e il suo nome è ancora presente sul sito ufficiale della National Portrait Gallery. Ma l’episodio solleva interrogativi più ampi sull’autonomia delle istituzioni culturali federali in una fase politica fortemente polarizzata. La cultura pubblica americana è diventata terreno di scontro politico, e i musei – un tempo percepiti come luoghi di conservazione e ricerca – rischiano oggi di trasformarsi in campi di battaglia ideologica.
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