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Dardust, il mutaforma della musica: tra identità segrete, burnout e rivoluzioni sonore

Dal successo di Soldi al ritorno alle origini con Urban Impressionism: il viaggio di Dario Faini, tra pianoforte ed elettronica, arte e introspezione

Dardust, il mutaforma della musica: tra identità segrete, burnout e rivoluzioni sonore

Nessuno sa davvero quante canzoni abbia firmato. Alla domanda precisa “In quante canzoni è coinvolto Dardust?”, perfino l’intelligenza artificiale più aggiornata si arrende: “Dardust è coinvolto in un gran numero di canzoni”. Un enigma che conferma l’aura misteriosa e camaleontica di Dario Faini, artista che sfugge alle definizioni, autore di hit pop rivoluzionarie e creatore di paesaggi sonori elettronici raffinati.

Che si parli del Faini coautore di Soldi di Mahmood, La noia di Angelina Mango o dei suoi brani per Jovanotti, Lazza, Luca Carboni, o che si ascolti il Dardust solista di Urban Impressionism, il ritratto è lo stesso: un artista ibrido, quasi un supereroe musicale, con un nome da fumetto e una doppia identità, tra mainstream e sperimentazione.

Non è un caso se Dardust confessa di essersi pentito, a tratti, di aver creato quel personaggio. “Avevo quasi deciso di tornare a essere solo Dario Faini”, racconta, rivelando un conflitto interiore comune a molti artisti. Un conflitto che si acuisce nel contesto di un’industria musicale dove le pressioni commerciali possono soffocare la libertà creativa. Eppure, le sue “creature incomprese” si sono spesso rivelate rivoluzionarie: Soldi, certo, ma anche Cenere di Lazza. Brani accolti con diffidenza iniziale e poi diventati game changer, mutando la definizione stessa di musica pop in Italia.

Con Urban Impressionism e il relativo tour, Dardust abbandona i featuring e riduce al minimo la voce umana: “Adesso sul palco non ho più ospiti. Voglio che sia chiaro: non sono un producer del pop, ma un pianista e performer elettronico”. Un cambiamento deciso, una dichiarazione d’intenti che ha un costo: meno pubblico, ma più libertà. “So che chi viene, viene per me”. Il suo set estivo include versioni “electro”, senza pianoforte centrale, e si ispira a modelli come Jon Hopkins, lontani anni luce dai ritmi radiofonici. “Le vocals dei Chemical Brothers a volte mi disturbano”, ammette, pur avendoli citati in passato tra le influenze.

Il turning point è stato il burnout, arrivato dopo anni a pieno ritmo come autore e produttore: “Sette giorni su sette, sempre a essere creativo. A un certo punto perdi il senso di tutto”. Ma anche da lì, Faini ha tratto insegnamento: imparare a dire di no, selezionare, usare le proprie nevrosi per creare, come farebbe un attore. “Non voglio più essere fagocitato dal mio stesso ruolo”.

Il suo primo lavoro come autore di una colonna sonora, Mani nude di Mauro Mancini, segna un altro passaggio. Dopo aver rifiutato progetti comici, ha accettato un film dai toni cupi e trasformativi: “Mi ci sono rivisto. È il percorso che compio in ogni disco: attraversare l’oscurità per arrivare a una catarsi finale”. La data zero del tour, ad Ascoli Piceno, è stata un ritorno alle origini, in un anfiteatro naturale sopra il suo paese natale, dove lavorava suo nonno. Un’esperienza intensa, simbolica, come tutte le location scelte per il tour: Forte di Exilles, Pantelleria, Assisi, Venezia. “Volevo luoghi meno canonici, più in risonanza con l’estetica dell’album”.

E se un tempo inseguiva la perfezione, oggi accoglie l’errore creativo: “L’ansia da perfezione genera frustrazione. L’errore può aprirti porte inaspettate, farti conoscere parti di te che ignoravi”.

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