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Chi sono davvero i nomadi digitali? Tra mito, tendenze globali e burocrazia all’italiana

Una figura emersa dopo la pandemia unisce lavoro da remoto e voglia di mobilità. Italia pronta ad accoglierli, ma non senza ostacoli

Chi sono davvero i nomadi digitali? Tra mito, tendenze globali e burocrazia all’italiana

Foto di repertorio

Sono spesso giovani, altamente qualificati, liberi da vincoli familiari e attratti tanto dalle metropoli quanto dai paradisi low cost. Parlano più lingue, lavorano in remoto con aziende di ogni continente e vivono dove vogliono, purché ci sia connessione veloce. Sono i nomadi digitali, protagonisti di una rivoluzione del lavoro globale che ha preso slancio con la pandemia da Covid-19, ma affonda le radici già alla fine degli anni Novanta.

Nati come una nicchia sperimentale, oggi rappresentano una categoria in espansione, al punto da spingere molti governi – Italia compresa – a creare norme ad hoc per regolare il loro ingresso. Il nostro Paese ha introdotto una specifica procedura extra-flussi per i lavoratori da remoto con il decreto legge 4/2022. Due le figure principali: il lavoratore da remoto, legato a un contratto dipendente, e il nomade digitale, libero professionista che opera da qualunque luogo grazie alla tecnologia.

Secondo i requisiti fissati nel decreto del 29 febbraio 2024, questi professionisti devono dimostrare redditi superiori ai 24.789 euro annui, assicurazione sanitaria, esperienza di almeno sei mesi nel settore e un'attività altamente qualificata, certificata da titoli universitari o anni di lavoro. I più fortunati possono godere anche di convenzioni internazionali che li esonerano dal versamento dei contributi in Italia, ma nella maggior parte dei casi sono tenuti ad aprire una partita IVA e a pagare tasse e oneri secondo le regole italiane.

Se la normativa è recente, il fenomeno dei nomadi digitali è già diventato una leva strategica per turismo e sviluppo locale. Non mancano, però, le ambiguità. Da un lato le Aree Interne e i piccoli comuni si sono lanciati nell’accoglienza di questa “nuova specie” di viaggiatori-lavoratori, talvolta supportati da fondi straordinari. Dall’altro, il marketing territoriale si è spinto oltre, rischiando di trasformare il nomade in un’icona da catalogo più che in una risorsa stabile.

Secondo l’IRPET, istituto di ricerca economica della Toscana, il profilo tipo del nomade digitale è elitario: alto livello di istruzione, professioni digitali, buoni guadagni, attenzione all’ambiente culturale e alla qualità della vita. Il fascino delle aree marginali, invece, sembra attenuarsi di fronte a esigenze pratiche: vicinanza ai servizi, bellezza paesaggistica, clima favorevole, infrastrutture affidabili.

In questo scenario, le città che sanno offrire un equilibrio tra qualità del lavoro da remoto, vivacità culturale e sicurezza risultano le più attrattive. L’interesse verso questi nuovi abitanti non è solo economico: il loro arrivo può infatti contribuire alla rigenerazione urbana, alla creazione di comunità miste e all’apertura internazionale di territori spesso dimenticati.

Ma l’Italia è davvero pronta ad accoglierli? La procedura per ottenere il visto è chiara, ma complessa. Non serve il nulla osta, ma i requisiti da dimostrare sono numerosi e le verifiche coinvolgono vari enti. Inoltre, l’apertura della partita IVA non è automatica e una gestione fiscale scorretta può costare caro, fino alla revoca del permesso di soggiorno.

L’esperimento è appena cominciato. Resta da capire se il nomade digitale sarà un’opportunità reale o solo un sogno a colori per amministratori e operatori turistici, più affascinati dal trend che preparati ad accoglierlo davvero.

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