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Pet robot

Robot con la coda per aiutare gli anziani

Non respirano, ma fanno compagnia: il lato umano degli animali robotici.

Robot con la coda per aiutare gli anziani

Nella stanza tranquilla di una casa di riposo, una donna di 87 anni tiene in braccio un gatto arancione. Lo accarezza, gli parla, lo guarda negli occhi. Lui si muove piano, chiude le palpebre, emette un piccolo suono. Si chiama Muffin, dice lei. Solo che Muffin non è un gatto vero. È un robot.

Sembra una scena da fantascienza, ma oggi è realtà. Gli animali robotici – gatti, cani o foche meccaniche – stanno diventando compagni sempre più presenti nelle residenze per anziani, soprattutto tra le persone affette da demenza o Alzheimer. Non solo portano conforto: aiutano a comunicare, creano momenti di calma e persino stimolano il dialogo.

Ma come funzionano davvero? E cosa cambia quando l’amico peloso è fatto di circuiti?

Cosa sono gli animali robotici?

Si tratta di dispositivi progettati per sembrare, suonare e muoversi come animali veri. A differenza dei robot “assistivi”, che aiutano nelle attività quotidiane (ricordare le medicine, sollevare oggetti), questi animali tecnologici hanno un ruolo più sottile: dare compagnia, suscitare emozioni, stimolare la relazione.

Uno dei modelli più noti è Paro, una foca bianca di peluche high-tech che reagisce al tocco, alla voce e alla luce. Ma esistono anche soluzioni più semplici, come i Joy for All Pets: cani e gatti robotici che muovono la testa, simulano il respiro e fanno le fusa. Non hanno un’intelligenza artificiale avanzata, eppure funzionano. Perché ciò che conta, spesso, non è quanto è sofisticato il robot, ma il contesto in cui viene usato.

I dati, infatti, parlano chiaro: gli anziani che ricevono un animale robotico mostrano, nella maggior parte dei casi, miglioramenti nell’umore, nel sonno e nella comunicazione. Tra le persone con demenza, l’interazione con questi oggetti “viventi ma non vivi” stimola il linguaggio e aiuta a contenere agitazione e solitudine. Soprattutto, gli animali robotici diventano un ponte. Un punto di contatto tra chi vive una condizione cognitiva difficile e chi gli sta accanto. Sono l’occasione per parlare, accarezzare, sorridere, in situazioni in cui la parola può mancare ma la voglia di relazione no.

Gli effetti positivi, però, non dipendono solo dal robot, ma da come viene introdotto e accompagnato. In alcune strutture, ad esempio, gli operatori presentano il robot con gesti lenti, lo accendono in modo visibile, e lo integrano in piccoli rituali quotidiani. Questo approccio riduce il rischio di confusione e rende l’esperienza più naturale. Un altro fattore importante è l’organizzazione: se non ci sono persone dedicate a gestire i dispositivi o fondi per mantenerli nel tempo, gli animali robotici rischiano di finire purtroppo dimenticati in un cassetto.

Tante ancora le domande aperte

Non tutto è perfetto, e restano alcune criticità. Molti studi si concentrano solo sul breve periodo: cosa succede quando l’effetto “novità” svanisce? Oppure se il robot viene rimosso bruscamente?

C’è anche il nodo etico: è giusto offrire un surrogato di animale a chi, magari, non distingue più ciò che è reale da ciò che è simulato? In realtà, molte persone sono consapevoli che l’animale non è vivo, ma questo non impedisce che si crei un legame affettivo autentico. E anche quando la malattia confonde la percezione, quello che conta è ciò che l’interazione riesce a risvegliare: calma, memoria, contatto.

Certo, i modelli più avanzati sono ancora costosi. Ma quelli più semplici, se usati nel modo giusto, dimostrano che non serve la tecnologia più evoluta per fare la differenza. Serve cura, attenzione, presenza umana.

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