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Come mangiavano gli antichi
22 Luglio 2025 - 14:30
Cosa accomuna una vasca in pietra di duemila anni fa a un laboratorio di genetica del XXI secolo? A quanto pare, un’antica salsa fermentata. Un gruppo di ricercatori internazionali ha infatti analizzato frammenti di pesce provenienti da un impianto romano per la lavorazione del pesce e ne ha estratto il DNA, permettendo così di identificare con precisione le specie utilizzate per produrre il famigerato garum, uno dei condimenti più apprezzati dell’Impero.
Il sito esaminato si trova in Galizia, nella parte nord-occidentale della Spagna, in una località chiamata Adro Vello. Lì, tra le rovine di una cetaria romana, sono stati ritrovati resti organici all’interno di una vasca di fermentazione. I ricercatori, sfruttando tecniche di sequenziamento del DNA antico, sono riusciti a ottenere preziose informazioni da ossa di pesce frammentarie, danneggiate dal tempo e dai processi di fermentazione.
I risultati hanno parlato chiaro: i resti principali appartenevano a sardine europee, ma sono state rilevate tracce anche di altri pesci come acciughe, sgombri e merluzzi in altri contesti produttivi. Sorprendentemente, confrontando i dati genetici antichi con quelli delle specie moderne, gli scienziati hanno scoperto che le popolazioni di sardine di epoca romana erano più isolate geneticamente rispetto a oggi, suggerendo una minore mescolanza tra aree oceaniche.
La preparazione del garum era basata su una lunga fermentazione in cui il pesce, ricoperto di sale, si decomponeva lentamente sviluppando sapori intensi e naturali esaltatori di gusto. Questo processo evitava la putrefazione e creava un prodotto stabile e facile da trasportare. Ed è proprio per questo che il garum diventò un successo commerciale: attraversava mari e continenti, partendo da grandi centri di produzione situati in Hispania e nel Nord Africa per raggiungere le tavole dell’intero Impero.
A guidare il progetto è stato un gruppo multidisciplinare, con il contributo della dottoressa Paula F. Campos, del Centro Interdisciplinare di Ricerca Marina e Ambientale dell’Università di Porto. Secondo la ricercatrice, nonostante i resti ittici siano una presenza comune negli scavi romani, il loro impiego in studi genetici è stato finora poco sfruttato. Ora, invece, si apre una nuova frontiera per comprendere non solo cosa mangiassero i Romani, ma anche da dove provenissero le risorse alimentari e come venissero distribuite.
Questa indagine pionieristica dimostra che anche un semplice frammento osseo può raccontare molto di più di quanto si pensasse. Non solo sulla dieta quotidiana degli antichi, ma anche su commercio, pesca, biodiversità e tecniche di conservazione in uso duemila anni fa.
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