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«Distrutti i faldoni». E il caso Beauregard è di nuovo archiviato

caso Beauregard

Ci avevano provato, a darle giustizia. Ma 52 anni sono troppi, i nuovi spunti investigativi troppo flebili. E la bella Martine tornerà ad essere ciò che è stata per cinque decenni: protagonista di un giallo atroce e perverso destinato a rimanere senza finale.

L’inchiesta riaperta dal pm Andrea Padalino quando una donna indicò un sospettato raccontando che il nome le era stato fatto dal marito prima di morire non ha portato da nessuna parte e il pm Eugenia Ghi, che ha ereditato il fascicolo quando il collega ha lasciato Torino, ha firmato la richiesta di archiviazione vidimata dall’aggiunto Patrizia Caputo, poi accolta da un gip, condannando il caso Beauregard a rimanere un Cold Case senza finale.

I faldoni, del resto, non ci sono più. Distrutti. Con tutta la storia triste che racchiudevano narrata in migliaia di fogli ingialliti battuti a macchina nei vecchi uffici di via Tasso e di via Grattoni. Era la storia senza finale dell’indagine sull’omicidio di Martine Beauregard. Finita al macero, gettata via per fare spazio negli archivi di un Pala Giustizia in cui pare non ci sia più posto neppure per la memoria.

Partiva da qui la richiesta di archiviazione dell’ultima inchiesta sul delitto della bella ragazza di origini francesi seviziata da più persone e strangolata sul finire della primavera del ‘69. Da una premessa in cui il pm Eugenia Ghi riassumeva le indagini svolte subito dopo il delitto richiamando la sentenza di non luogo a procedere nei confronti di Carlo Campagna, che è anche l’unico atto processuale che sia stato possibile rintracciare. Perché «gli altri archiviati a suo tempo dal Tribunale sono stati distrutti una volta decorso il termine di 40 anni». E se una parte di quelle carte è riemersa dagli armadi impolverati della questura dove erano state conservate alcune copie, è pur vero che il resto è andato perduto per sempre. Tutto, come precisa il sostituto procuratore, è stato fatto «in ossequio della normativa vigente». Ma il caso è uno di quelli che portano a chiedersi se di fronte a certi tipi di reati non sia opportuno prevedere qualche eccezione alle regole.

Quel fascicolo, in ogni caso, non c’è più. E a scoprirlo suo malgrado è stato il pm Andrea Padalino che all’inizio del 2017 ha deciso di riaprire l’inchiesta sulla base di un’annotazione della squadra mobile che il 23 gennaio dava atto dell’acquisizione di nuovi elementi di prova. Una donna aveva riferito le ultime parole del marito, che sul letto di morte le aveva indicato un nome: quello dello zio, «il killer di Martine Beauregard». Il sostituto procuratore ha voluto andare a fondo, alcuni telefoni sono finiti sotto controllo, al sesto piano della Procura sono sfilati diversi protagonisti delle notti di una Torino che non c’è più.

Da quel Carlo Campagna che si autoaccusò del delitto senza averlo commesso a un travestito amico stretto di Martine, alle ex colleghe della ragazza. Anche l’ultimo tentativo di restituire alla affascinante prostituta almeno un po’ di giustizia, però, è fallito. Perché i nuovi spunti investigativi - ha ritenuto il pm Ghi - erano troppo flebili. E contro l’uomo iscritto sul registro degli indagati non c’era che la parola di una testimone. Se qualche speranza restava, era affidata alla scienza. Ma il pm «ha accertato che il cadavere della Beauregard è stato cremato, con la conseguenza che si è spenta ogni speranza di svolgere accertamenti tecnici utili con metodi moderni». Dunque il caso è arichiviato. La verità, dopo 50 anni, sembra pure questa destinata al macero.

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