I fascicoli che passano sulla scrivania di un procuratore descrivono il lato oscuro di una città attraverso il crimine e i racconti messi a verbale dai suoi protagonisti.
Emma Avezzù, da tre anni, a Torino è il
procuratore dei minori. «Procuratrice no, suona male. Come prefetta e avvocata». E poterla ascoltare, interloquendo con lei come hanno fatto gli ospiti del pranzo del lunedì organizzato all’hotel Sitea dal movimento Dumsedafe, è un’occasione unica per scoprire ciò che non sappiamo dei nostri ragazzi. Di tutti. Perché tutti, in questo mondo in cui bambine di 11 anni spediscono agli sconosciuti le proprie immagini intime e giovincelli di 14 rapinano coetanei per un hot dog, sono potenziali vittime. Ma pure potenziali carnefici. Quantomeno di se stessi».
Dottoressa, parlando di bullismo, lei afferma che coloro che lo subiscono, sovente, sono vittime predestinate. Cosa intende?
«Significa che quasi sempre a subirlo sono i soggetti più fragili, quelli che fanno più fatica a confidarsi, ad aprirsi, salvo poi magari esplodere. Se parliamo poi di diffusione di materiale pedopornografico, che può coinvolgere anche i ragazzi, ma soprattutto le ragazzine, significa che troppo spesso sono loro stesse, anche a 11 o 12 anni, a diffondere quei materiali senza rendersi conto delle possibili conseguenze».
E quali sono?
«Se vengono inviati nell’ambito di un rapporto sentimentale, può accadere che quando quel rapporto finisce vengano usati come arma di ricatto, magari per ottenere altre prestazioni, sotto la minaccia di divulgarli ai genitori o ad altri. Sempre più sovente, poi, accade che le foto e i video vengano spediti a sconosciuti “incontrati” su Instagram. Che magari si presentano come minorenni senza esserlo. Qui il rischio è di finire in vere e proprie reti di pedopornografia. E ci preoccupa molto la facilità che troppe ragazzine hanno nell’inviare fotografie delle proprie parti intime o di se stesse in posizioni particolari».
Dottoressa, ma cos’è il bullismo?
«Non esiste un reato di bullismo. Possiamo dire che ci sono una serie di condotte con un significato sociologico che comprendono comportamenti che possono costituire reato, ma anche no. Dalle ingiurie, che sono state depenalizzate, alla diffamazione che invece è procedibile a querela. Fino a una serie di condotte di vessazione, come le percosse, le lesioni, e poi anche condotte più gravi, come le rapine, le violenze sessuali, le estorsioni, per una merendina o per avere i soldi degli stupefacenti. E poi c’è lo stalking, che costringe la vittima a modificare le proprie modalità di vita».
Ad esempio?
«C’è chi per sfuggire alla persecuzione fa percorsi diversi per tornare a casa, chi cerca di nascondersi, addirittura chi arriva a cambiare abitazione, a non frequentare determinati gruppi».
E poi c’è il cyberbullismo....
«Che è una modalità diversa per commettere condotte molto simili, con una differenza molto importante».
Quale?
«Che l’uso dei social e del mezzo telematico ne amplifica e aumenta la gravità attraverso la possibilità di diffusione immediata ad un numero di persone indeterminato. Il semplice sottolineare, disprezzare le carenze, le mancanze, certe particolarità della vittima con un numero di soggetti indefiniti può avere conseguenze devastanti».
Parliamo di babygang: anche a Torino c’è un allarme?
«Nella primavera di quest’anno l’allarme è stato per quelle che potevano sembrare “rapinette”, ma in realtà erano parte di un fenomeno più ampio, da non sottovalutare. Erano condotte predatorie per impossessarsi di beni di valore modesto, come un paio di scarpe. Avvenivano nella zona di via Verdi, corso San Maurizio, vicino alla Mole. Parliamo di episodi estremamente ravvicinati nel tempo e reiterati: non passava weekend in cui non ce ne fossero. Con ragazzini anche vittime di lesioni. Molto spesso si trattava di rapine per poche decine di euro. E trovare i responsabili non è stato difficile, grazie alle telecamere, ma anche perché poco dopo chi aveva commesso le rapine veniva trovato al Burger King o al Mc Donald’s, a mangiare panini comprati con il maltolto».
La vostra risposta quale è stata?
«La nostra è tendenzialmente una risposta repressiva: indagine, iscrizione sul registro, a volte le misure cautelari. Nei casi della primavera scorsa, ne sono state emesse molte. Poi la Questura ha trovato un modo di intervento estremamente pregnante, che ha avuto buoni effetti. È una misura di prevenzione, si chiama Dacur, e sulla scorta del Daspo per le partite impone di non frequentare determinate zone».
Quanti Dacur sono stati emessi?
«Nel 2021, quelli a carico di ragazzi tra i 15 e i 18 anni sono stati solo due. Nel 2022, ventiquattro. Con l’inibizione di frequentare determinate zone: via Rossini, via Po, piazza Vittorio, lungo Po Cadorna, corso San Maurizio, corso Regina, lungo Po Machiavelli, 8 Gallery, Gru, San Salvario e Valentino. E non dico che il problema sia risolto, ma lo ha abbastanza ridotto».
Lei ha assunto l’incarico tre anni fa. Subito dopo è esplosa la pandemia. Che effetto ha avuto sui ragazzi?
«Il disagio, purtroppo, è aumentato. Se già è stata dura per noi, dobbiamo pensare ai ragazzini che non hanno potuto intessere relazioni, amicizie, praticare attività sportiva. Ci siamo trovati di fronte a un reparto di neuropsichiatria infantile del Regina Margherita, l’unico in Piemonte che ha la possibilità di un ricovero, strapieno, che non aveva più posto. Con ragazzi a disagio che si sono dovuti ricoverare nella pediatria. Ricordo telefonate allarmate di un pediatra di Cuneo, dove abbiamo ricoverato una ragazzina appena 14enne che ha tentato di uccidere il padre con un’arma da taglio. Non potendo pensare a un arresto in carcere, non essendoci posto al Regina Margherita, si è dovuta ricoverare in psichiatria adulti a Cuneo».
Una situazione davvero preoccupante...
«Il disagio è davvero esploso. Non solo con i reati, ma anche attraverso condotte autolesive, disturbi alimentari. Io sono ottimista di natura, ma questa realtà è tutt’altro che facile».
E le famiglie, come stanno?
«Purtroppo, la pandemia ha ulteriormente aggravato situazioni che erano già sufficientemente critiche. La chiusura, il timore nel vedersi, nel toccarsi con gli altri, anche all’interno delle famiglie, ha acuito i problemi soprattutto nelle famiglie con meno mezzi. Così, se nei primi tempi del lockdown del 2020 i maltrattamenti in famiglia sono stati denunciati meno, in realtà sono stati ancora più pesanti, proprio a causa di questa chiusura forzosa. E successivamente sono esplose».
In che dimensioni?
«Al 30 settembre siamo arrivati a iscrivere un numero di procedimenti civili uguale a quello di tutto il 2020. Quest’anno la situazione è esplosa perché è aumentato il disagio delle famiglie, ma anche il numero dei minori stranieri non accompagnati. Dalla primavera all’estate il fenomeno ha riguardato i ragazzini ucraini arrivati senza genitori che adesso, in molti casi, stanno rientrando. Ma dall’estate in poi è riesploso il fenomeno dei minori soli provenienti dagli altri Paesi. Con l’effetto che ormai i servizi non sanno più dove collocarli».
E cosa si fa?
Il Comune di Torino è arrivato a dire che poteva collocare soltanto i minori sotto i 14 anni. A quelli più grandi viene dato un biglietto che li invita a presentarsi all’ufficio minori stranieri per verificare se vi sia una sistemazione».
Anche il Ferrante Aporti, ci risulta, è sovraffollato…
«È vero. Il carcere minorile di Torino, da tempo, è pieno e accoglie un numero di ragazzi al di sopra della capienza. Con gravissime conseguenze: risse, lesioni al personale di polizia penitenziaria che è ridotto al lumicino. Abbiamo minori che dovrebbero stare nel nostro carcere e invece vengono deportati a Nisida, ad Airola, a Bari. Carceri estremamente lontane, con tante difficoltà e un enorme danno economico, visto che dovrebbero essere accompagnati su e giù per l’Italia a ogni udienza. E poi questo incide sulla possibilità di avere relazioni con la famiglia di origine».
E le comunità come stanno?
«Anche loro sono strapiene, con la necessità di deportare ancora una volta i nostri ragazzi a Trapani o, come è accaduto di recente, a Castellamare del Golfo».
La situazione, dottoressa, è molto complessa. I problemi tanti, per certi versi molto allarmanti. Dal suo punto di vista privilegiato, cosa si può fare affinché la situazione non degeneri ulteriormente?
«Penso che tutti, ciascuno con il proprio ruolo, siamo chiamati a svolgere un compito innanzitutto educativo. Quando il danno è arrecato, possiamo cercare attraverso gli strumenti della riparazione di favorire il dialogo tra autore del reato e vittima. E possiamo cercare di prevenire, educando i ragazzini e soprattutto le ragazzine a riconoscere i pericoli, soprattutto nel web. E poi possiamo dare l’esempio. Io sono sempre stupita dal vedere coppie con figli, in vacanza al mare, che si trovano ad un tavolo e non stanno parlando, ma chattando ognuno per conto proprio. E mi viene in mente quel film, “I bambini ci guardano” di De Sica, che ci insegna come più che le parole serva l’esempio. Che i rapporti famigliari vanno impostati sul dialogo, evitando di vedere nel web la soluzione di tutti i problemi, ma anzi percepirne il rischio».
E poi?
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«E poi occorre dare alle vittime di bullismo uno spazio di confronto. Su questo, la polizia municipale di Torino sta facendo tanto, e fanno tanto anche le scuole, anche se c’è ancora qualche preside, soprattutto in provincia, che cerca di nascondere i fatti negativi pensando di preservare in questo modo il buon nome dell’istituto. Si sbagliano, però, quei presidi. Le situazioni, prima o poi, esplodono. Tutte. Nasconderle non fa che aggravarle».