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L'INTERVISTA DELLA SETTIMANA
03 Novembre 2024 - 10:00
Luca Balbiano
«La cima di una montagna è solo la base di quella successiva». Se lo ripete come un mantra, l’imprenditore piemontese Luca Balbiano, prima di cimentarsi in una nuova sfida. Dopo aver lasciato il vigneto di Villa della Regina - non senza qualche amarezza - ora Balbiano è pronto per lanciarsi in una nuova avventura: una start up tutta torinese per creare vigneti urbani, Citiculture. «Partiamo dall’idea che la vigna urbana può avere una forte connotazione sociale e può impattare sulla vita delle persone. Penso alla vigna di Barcellona, gestita con un progetto di inclusione oppure a quella di New York che ci ha ispirato il concetto della vigna aperta al pubblico sul rooftop e così via. È un mondo in espansione»
Balbiano, partiamo da principio, cosa è successo a Villa della Regina?
«La nostra concessione su quella vigna è arriva a scadenza naturale e, al termine di quel periodo, non è stata rinnovata. Il Ministero dei Beni Culturali ha creato un bando che non prevedeva diritti di prelazione, come normalmente succede a parità di offerta. E non prevedeva neppure variabili di merito».
Qual era il criterio di assegnazione?
«Il maggior rialzo economico».
Quindi avete rinunciato?
«Non abbiamo rinunciato. È che non potevamo competere. Non era più la nostra partita».
Percepisco dell’amarezza…
«Noi eravamo totalmente consapevoli che quel progetto poggiasse le sue radici su un bene di proprietà pubblica e fosse quindi soggetto alla dovuta turnazione. Però, va detto che una vigna ha delle economie di scala e dei tempi di ammortamento che non sono quelli di un immobile o di un parcheggio. Avremmo potuto fare ancora tante cose. Anche dal punto di vista enologico. In ogni caso, ho la consapevolezza del fatto che io e la mia famiglia abbiamo fatto tutto ciò che abbiamo potuto. Sono solo dispiaciuto di aver dovuto abbandonare un progetto che è stato un pezzo di cuore e di lavoro nella mia vita».
Ci sono poche vigne urbane al mondo, ma ancor meno che possano fregiarsi di produrre un vino a Denominazione d’origine come quello di Villa della Regina. Cosa significa questo per Torino?
«Questo lo rende un posto unico. Abbiamo fatto un lungo percorso sul vigneto che ha portato Torino a diventare una città produttiva dal punto di vista vitivinicolo. A maggior ragione se si considera che si produceva un vino a Denominazione d’origine».
Ne è nato anche un movimento culturale?
«Sì, da lì è nata una importante rete di vigne urbane. Ho contribuito personalmente a fondare la Urban Vineyards Associatione, che ha messo Torino al centro del mondo viti-vinicolo urbano mondiale. Si è creata una rete che conta oggi 15 o 16 realtà sparse in tutto il globo: da Parigi a New York, da Barcellona a Venezia, passando per Los Angeles, Londra e Palermo. Ognuna ha una sua peculiarità».
Se dovesse fare un augurio ai nuovi gestori della vigna di Villa della Regina?
«Mi auguro che chi ci ha succeduto faccia di più e meglio di noi, perché quello è un posto dei torinesi. È un simbolo. Anche per la Freisa di Chieri».
A proposito, come è andata la vendemmia?
«Abbiamo terminato due settimane fa. C’è stato un po’ di “stop and go” dettato dalla pioggia, ma tutto sommato è andata bene. Ci sono state sicuramente annate più facili».
In che senso?
«Il clima è stato provante. Abbiamo avuto molte piogge tra maggio e giugno, dalla fioritura in avanti. Con il “bonus track” della gelata di metà aprile, che ha portato con sé una serie di complicazioni. Molta pioggia porta disagi anche nell’accedere alla vigna con i mezzi. E poi crea un ambiente caldo e umido che è ideale per il proliferare delle malattie della vigna. Diciamo che è stata un’annata molto sfidante. Sarà ricordata come una delle più complesse del nuovo millennio».
Freisa compresa?
«Con la Freisa siamo stati più fortunati. Parliamo di un vitigno particolarmente resiliente, termine abusato, ma in questo caso è calzante. Strutturalmente ha sopportato meglio la pioggia incessante grazie a un grappolo che non trattiene molto l’umidità».
Parliamo di nuovi progetti. Cos’è Citiculture?
«Steve Jobs diceva che bisogna unire i puntini guardando all’indietro. E Citiculture si capisce così: guardando all’indietro e anche molto avanti».
Ci spieghi meglio…
«Abbiamo intuito come, prendendo il meglio dai diversi modelli di gestione della vigna urbana, potesse venire fuori qualcosa che sarebbe stato utile. Citiculture usa lo strumento della vigna urbana come un mezzo».
Un mezzo per ottenere che cosa?
«Impatti. Impatti Esg (Environmental, Social and Governance). Progettiamo, creaiamo e gestiamo vigne urbane all’interno di contesti aziendali per fare in modo che diventino delle piccole isole per riconnettersi con la natura. Con me ci sono Paolo Astrua, sociologo e braccio destro nella Urban Vineyards Association e Alberto Cardile, esperto di comunicazione».
Parliamo di vigne classiche?
«Non direi. Sono vigne super I-Tech, in vaso e fuori terra. Ci collochiamo all’estremo opposto del comune “green washing”. In inglese “culture” vuol dire sia “cultura” che “coltura” e qui è racchiuso tutto il senso del progetto».
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